Le opinioni di Jaron Lanier, personaggio di culto della Rete e pioniere della realtà virtuale, termine da lui stesso coniato alla fine degli anni ottanta, sono sempre state accolte con grande interesse. Lanier interviene regolarmente in conferenze, dibattiti anche televisivi, e si è guadagnato le prime pagine del New York Times e del Wall Street Journal. L’ultimo libro da lui scritto “You are not a gadget: a manifesto” non ha fatto eccezioni ed ha scatenato una serie di riflessioni su gran parte dei media americani ed europei. You are not a gadget è un atto di accusa nei confronti di internet. “Ai tempi della rivoluzione digitale – afferma Lanier – io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c’è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale. Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta. Altrimenti la gente finisce nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ascolta solo chi rafforza le sue idee».
E ancora, “Wikipedia è un’aberrazione fondata sulla leggenda che il sapere collettivo sia inevitabilmente superiore alla conoscenza del singolo esperto e che la quantità di informazioni, superata una certa soglia, sia destinata a trasformarsi automaticamente in qualità….. L’idea iniziale di internet era collegare la gente, oggi assistiamo a un isolamento fra le persone. La rivoluzione digitale è stata tradita; sull’autostrada elettronica viaggia un mondo anomino, preda di appiattimento e impoverimento culturale, dove può crescere mob mentality, la mentalità da linciaggio”.
All’impoverimento o appiattimento delle informazioni, Lanier offre una possibile soluzione: un nuovo contratto sociale per il web, fondato su un sistema di micropagamenti. Il ragionamento di Lanier – così come sintetizza Marco Valsania sul Sole – è che il contenuto gratuito può sembrare attraente ma non lo è davvero, perché sottrae risorse alla creatività. E il modello prevalente che vuole tutto aperto e gratuito minaccia di far sparire intellettuali e artisti, impossibilitati a guadagnarsi da vivere. L’unica cultura protetta resta la pubblicità mentre contestualmente avanza il totalitarismo della hive mind, la mente-alveare, spronato da protagonisti quali Google, Wikipedia e Facebook. Come contrastare questo fenomeno? Un sistema di piccoli pagamenti, per pezzi d’informazione o opere d’ingegno, potrebbe essere accettato da tutti, potrebbe incentivare l’innovazione e creare un nuovo equilibrio: l’importante è che l’accesso sia a basso costo e universale. Occorre – questa è la proposta di Lanier – una forma di protezione, di riconoscimento del contenuto, forse diversa, meno rigida del copyright.
Affermazioni di questo tipo hanno sfondato una porta aperta in tutti gli ambienti giornalistici ed editoriali dove da tempo si è tentati di arginare la crisi scatenata dai fenomeni recessivi di questi ultimi anni, dalla progressiva riduzione degli investimenti pubblicitari e dal rapporto contraddittorio tra carta stampata e giornalismo online. Scrive Gianni Riotta, direttore de Il Sole 24Ore. “Mettere ogni giorno insieme, senza alcuna selezione, gli argomenti dei filosofi e le arrabbiature del tizio davanti al cappuccino tiepido, l’analisi economica di un Nobel e lo sfogo del qualunquista di turno, può essere celebrato dagli ingenui alla moda come open source e democrazia di rete. Il pericolo è invece riassunto bene nelle parole del guru Lanier: i blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter e la pasquinata firmata Zorro sul sito. In realtà questa poltiglia di informazione amorfa rischia di distruggere le idee, il dibattito, la critica”.
Se da una parte Riotta interviene nella discussione con un spirito giornalistico, Carlo De Benedetti, nell’intervento ospitato dal Sole , volge l’attenzione al discorso economico: “….. un editore non può prescindere dal bilancio, anche perché quando i conti non tornano è la libertà d’espressione a soffrirne per prima e di più. L’errore degli editori è stato puntare tutto sulla pubblicità, quasi che potesse esserci una quota aggiuntiva di investimenti da dedicare a internet e in particolare a chi fornisce notizie online. Non è così: nei budget degli investitori, com’è naturale, la pubblicità è stata dirottata sulla rete dalla stampa, soprattutto. Niente di preoccupante in momenti di crescita dell’intero sistema, una sventura in tempi di crisi globale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nel 2009 i giornali hanno perso oltre un quarto dei propri introiti pubblicitari, solo in parte infinitesima recuperati dai loro servizi su internet…. la Rete – dice De Benedetti rifacendosi alle considerazioni di Riotta – non può restare un Far West senza regole o una Somalia in balìa dei signori della guerra, dove tutto è gratis e la pirateria non è un reato. E questo nulla ha a che fare con la splendida libertà d’espressione e comunicazione che internet offre e che va difesa”.
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