I tempi di grande cambiamento e rapida evoluzione sono quelli in cui più di altri è sentita la necessità del dibattito, dello scambio di idee e del confronto. Serve a misurarsi e a crescere per poter meglio interpretare ciò che accade, trovare soluzioni, prevedere e determinare scenari futuri. Accade anche nel mondo dei media e del giornalismo, accade qui sul sito dell’EJO dove di recente ci siamo occupati della questione Google vs. editori. Una questione fondamentale, vitale, per chi oggi sta sulla rete e fa informazione; una questione che assume contorni e sfumature molto diversi a seconda del punto di vista dal quale la si guarda e, soprattutto, a seconda degli interessi in gioco da promuovere e da difendere.
La settimana scorsa ne abbiamo parlato qui con Massimo Mantellini, autorevole blogger ed editorialista di Punto Informatico. Oggi ne parliamo con Claudio Giua, direttore dello sviluppo e innovazione del Gruppo Editoriale L’Espresso.
Nella questione che vede contrapposti Google e gli editori, ci sono in gioco forti interessi economici ma, ancora prima, e non solo in relazione a google, ad essere in gioco è il giornalismo stesso, la definizione del suo ruolo al tempo di Internet…
“C’è un dibattito, che va avanti da anni, che vede contrapposti sostanzialmente quanti fanno giornalismo senza avere alle spalle un editore e quanti invece lo fanno avendo un quotidiano o un magazine, una televisione, una radio ecc. I primi hanno la sensazione che da parte dei secondi ci sia la volontà di tutelare una situazione di status quo, di salvaguardare il loro privilegio di pubblicare e diffondere notizie, che invece non è più appannaggio esclusivo dei giornalisti “con la tessera professionale” perchè oggi tutti possono raggiungere tutti. L’ovvia conseguenza è il sostenere che sia inutile da parte degli editori rincorrere soluzioni perchè il problema non esiste più, i giornali sono obsoleti. Ed è questo il punto cruciale: hanno ancora un senso i giornali? Se il giornalismo è una cosa e i giornali un’altra, vince chi sta sul mercato nel modo migliore, a prescindere da chi produce i contenuti? Oppure i giornali possono ancora far valere la loro capacità di raccogliere notizie, di selezionarle, di dar loro una gerarchia e tutto il resto? Personalmente sono convinto che i giornali continuino ad avere un ruolo, la maggior parte delle notizie che circolano in rete viene ancora raccolta, elaborata e realizzata da chi sta all’interno di strutture organizzate. La distribuzione delle notizie può seguire strade molto diverse, ma la notizia come tale rimane qualcosa che viene prodotto soprattutto da strutture organizzate. A garanzia dei lettori. Questo è il problema a monte, da tenere presente prima di discutere della questione editori vs. Google.”.
Google News è un problema per gli editori?
“No, non è Google News il problema degli editori. Google News non fa pubblicità, quindi non sottrae risorse agli editori. Ci sono aggregatori che fanno lo stesso mestiere perfino meglio. Con la comparsa dei tablet sono nati aggregatori molto più efficienti come Flipboard e Zite, in grado di raggiungerti al momento giusto con l’informazione giusta”.
Allora quale é il problema?
“Il problema è Google nel suo complesso. Mai in passato i contenuti giornalistici hanno avuto un’audience così ampia. Se sono un direttore o un editore so che oggi, oltre ai lettori del mio giornale, sono in grado di raggiungere molte più persone grazie alla capacità virale della rete. La pervasività dell’informazione professionale è molto più ampia di quanto lo fosse prima dell’avvento di Internet. Un articolo sul Corriere, su Repubblica o sul New York Times mi raggiunge in tempo reale. Il mio problema diventa allora quello del modello di business. Se i costi relativi sono più o meno gli stessi di un tempo, nell’universo digitale quel pezzo di informazione mi restituisce una piccolissima parte di quanto ho investito. Primo, la pubblicità sulla rete ha un prezzo unitario molto inferiore a quello sulla carta. Secondo, una volta che il mio pezzo di informazione è online, anzichè a me porta ricavi a chi non ha fatto nulla per costruirlo. Cioè Google e soci. Perchè chi riesce meglio di tutti in questo miracolo della monetizzazione dei contenuti è Google, di fatto monopolista della ricerca sulla rete e semi-monopolista della pubblicità sulla rete, come YouTube lo è per i video. È su questa super efficiente capacità pervasiva di servizio dei monopoli che si costruiscono ricavi pubblicitari spaventosi: Google quest’anno supererà la soglia dei 50 miliardi di dollari a livello globale. E in Italia Google è il secondo raccoglitore di pubblicità dopo Mediaset visto che si ritiene sfiori il miliardo di euro. Dico “si ritiene” perchè Google non fornisce cifre ufficiali. E poi: più porta a casa soldi, più Google riesce a essere pervasivo, più si ritrova ampie disponibilità di investimenti, più fornisce nuovi servizi ancillari utili per avere dei dati degli utenti. Big G sa di molti miei utenti online molto più di me e oggi disporre di quei dati è un bene preziosissimo, un valore straordinario. Non contesto le capacità di Google ma sostengo che la presenza di giganti con questa enorme capacità di creare reddito che non producono un bit di contenuto o una riga con valore giornalistico è qualcosa che ci danneggia. Nel confronto, noi che facciamo informazione non portiamo a casa niente”.
Dunque quale è la strada da intraprendere per gli editori: forse quella tedesca?
“I tedeschi hanno, come noi, leggi basate sul copyright che obbligano chi utilizza i contenuti dei giornali a retribuirne gli aventi diritto. Ora vogliono ampliare il raggio di azione di queste leggi. Big G dal canto suo dice di usare solo una minima parte del testo e che potrebbe limitarsi ad usarne ancora meno, anche solo il titolo, per cui – dice – non ritiene di dover pagare un accidente. Non solo, arriva a dire, come ha fatto in Francia e in Belgio, che non indicizzerà più chi gli chiede soldi. Essendo una struttura privata ha la possibilità di fare quello che vuole. E’ una situazione di monopolio ricattatorio. Non a caso presso la Commissione Europea è aperta l’inchiesta per abuso di posizione dominante, seppure per altre vicende. I tedeschi vogliono potenziare quelle leggi, stabilendo il principio per il quale a qualsiasi parte di un contenuto giornalistico, anche la minima, se utilizzata corrisponde una retribuzione. E questo non riguarda solo Google ma anche gli aggregatori”.
Pensa che la legge in Germania si farà e che potrebbe essere anche una soluzione per l’Italia?
“Sono molto curioso di vedere come andrà a finire. So solo che l’accordo francese tra Francois Hollande e Eric Schmidt di un paio di settimane fa la dice lunga: quella che sembrava un’azione molto decisa da parte dei francesi si è trasformata in una montagna che non ha partorito nulla: 60 milioni di euro all’anno per cinque anni per tutte le imprese editoriali del paese significa che gruppi come Le Figaro o Le Monde possono portare a casa cifre nell’ordine di qualche milione di euro a fronte di progetti di transizione al digitale che devono essere approvati da Google. Una cosa ridicola. In tutto questo è esplicita la volontà di Google di dare qualcosa in qualche forma agli editori per zittirne le richieste a patto che questa forma non sia mai collegata al pagamento di diritti. Che è quanto i tedeschi e noi chiediamo”.
Infatti fino ad ora, dalla Francia al Belgio al Brasile, chi l’ha spuntata è sempre stato Google che, fedele a quanto sostiene l’ex CEO Eric Schmidt, non intende pagare per contenuti che di fatto non ospita ma ai quali rimanda o che indicizza. Quale scenario si aprirebbe se la Germania e la Commissione Europea la spuntassero su Big G?
“Quello in sede UE è un confronto a cui guardiano con interesse ma che è bastao su presupposti diversi. Se invece la Germania farà questa la legge e Google risponderà, come prevedo, come ha risposto ovunque, cioé togliendo i contenuti degli editori dalla rete, questo aprirà uno spiraglio. Perchè se anche altri paesi dovessere seguire la stessa strada, prima o poi riuscirebbero a ottenere quel che chiedono. Trattando non da posizioni di debolezza”.
I contenuti dei giornali possono sopravvivere senza stare su Google?
“Probabilmente sì, grazie alle applicazioni e ai social network dove la diffusione dei contenuti avviene tramite criteri diversi da quelli di Google”.
Google può sopravvivere senza i giornali?
“Sì. Ma vedrebbe il motore di ricerca perdere appeal. Durante l’ultima riunione del comitato di presidenza FIEG è stato ribadito che la posizione francese non è quella degli editori italiani. L’European Publishers Council, il club degli editori europei più importanti, a Bruxelles ha ribadito che la soluzione francese non è quella auspicata dagli altri editori europei. Insomma c’è un movimento che si rende conto che non si possono comprare i contenuti editoriali con due lire perchè 60 milioni di euro per Google in Francia corrispondono a una frazione del totale del suo ricavo giornaliero nel mondo. È un’operazione che va assolutamente contrastata”.
E i giornali possono fare a meno di Google?
“Non penso sarebbe un dramma. E’ vero che una quota significativa di utenti arriva ai siti dei giornali tramite Google. Ma si tratta di utenti poco interessanti da un punto di vista pubblicitario perchè one shot, che vengono una volta, usufruiscono di quel contenuto e poi se ne vanno. Non si fidelizzano. Sarebbe un danno non così drammatico come si può pensare. Questo ragionamento vale per tutti gli aggregatori di notizie, non solo per Google. Ripeto: il modello di business di Google è estremamente efficiente e sottrae risorse a tutti. Una redistribuzione equilibrata dei ricavi che la rete produce sarebbe più corretta. E, forse bisognerebbe ragionarci in termini globali”.
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