I media arabi di fronte al terrorismo

11 Agosto 2016 • Brevi, Giornalismi • by

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Wikimedia Commons – CC BY-SA 3.0

La rete dell’Osservatorio europeo di giornalismo (Ejo), il centro di ricerca fondato nel 2004 dalla Facoltà di scienze della comunicazione dell’Usi di Lugano, si è espanso nel mondo arabo: in collaborazione con il Media Development Center di Tunisi è stato infatti recentemente fondato l’Arabic Journalism Observatory (Ajo), centro che attraverso un sito in lingua araba e i social media e presto anche in francese fornirà notizie sul giornalismo, la ricerca accademica sui media, la libertà di stampa, l’accountability dei media e le più importanti tendenze nel giornalismo nei Paesi del mondo arabo. L’Ajo si unisce così alla rete dell’Ejo composta da altre 13 università e istituzioni di ricerca in Europa e negli Usa. A dirigere il nuovo progetto arabo è Abdelkrim Hizaoui, Professore presso l’Institut de presse et des sciences de l’information (Ipsi) di Tunisi. Lo abbiamo intervistato.

Quale sarà il vostro obiettivo?
“Informeremo su come i media arabi coprono l’attualità, sia nazionale sia internazionale, promuovendo inoltre il contatto tra ricercatori. Si tratta di un lavoro importante poiché sappiamo che è proprio dall’ignoranza che nasce l’odio. Il mondo accademico e i media hanno un ruolo essenziale nel favorire la conoscenza reciproca, soprattutto in questo momento di crescita degli estremismi sia nel mondo arabo sia in Europa. Con il nostro lavoro permetteremo ai colleghi occidentali di capire meglio i discorsi dei ricercatori e dei media che si trovano a Sud del Mediterraneo”.

Ogni forma di terrorismo trae forza dai media, parte del vostro lavoro consisterà anche nel monitorare la situazione?
“Penso che la vigilanza debba essere elevata, ci appoggeremo a piattaforme che già monitorano i media e Internet alla ricerca di discorsi che incitano alla violenza, analizzandone poi i dati raccolti. Si tratta di discorsi inaccettabili sia a Sud sia a Nord del Mediterraneo. Speriamo che il nostro progetto possa fare anche da ponte tra questi due poli”.

I fatti delle ultime settimane, a partire dall’attacco terroristico di Nizza, come sono stati visti dai media arabi?
“Il mondo arabo è estremamente eterogeneo. Alcuni Paesi dell’Africa del Nord, come la Tunisia, l’Algeria e il Marocco sono stati colonie francesi per anni. Ciò che è successo a Nizza lo abbiamo vissuto come se stesse accadendo a noi. Nell’attentato ci sono state quattro vittime tunisine, di cui un bambino di quattro anni. Questa tragedia non ci riguarda solo a causa della perdita di nostri connazionali, ma anche perché è stata compiuta in nome dell’Islam. Dai media arabi traspare tutto questo malessere, la stampa ha denunciato questi atti. Quando abbiamo appreso che l’autore del gesto aveva origini tunisine c’è stata molta incredulità”.

“La Tunisia è sempre stato un Paese moderato e tollerante. L’opinione pubblica si è interrogata su come abbia potuto crescere degli estremisti proprio sul suo territorio. Eppure abbiamo un contingente di jihadisti e di candidati suicidi anche in casa nostra. Sui media si è creato un acceso dibattito sulle fonti culturali e religiose di questo genere di comportamenti. Credo che il crimine di questi predicatori che agiscono in nome dell’Islam sia di aver fornito una legittimazione religiosa a degli atti disperati, perpetrati attraverso persone deboli mentalmente. Per raggiungere questo scopo si sono serviti anche dei media. Questo è un punto importantissimo da trattare: i media devono cercare di giocare un ruolo attivo evitando di farsi strumentalizzare. Uno degli obiettivi dell’Osservatorio sarà proprio quello di creare un dibattito su questi aspetti”.

Dopo i numerosi attentati l’immagine dell’Islam risulta compromessa dai media?
“Certamente. Le persone che commettono questi atti criminali sono lo 0,01%; i media e l’attualità si basano quasi interamente su queste notizie. Ma è proprio questa la trappola. Se iniziamo a mettere in discussione i musulmani o l’Islam come religione facciamo il gioco dei terroristi, il loro scopo è proprio questo, fomentare l’odio tra i popoli e le religioni. I media devono invece essere portatori di messaggi di pace e comprensione e non veicolo di vendetta, incoraggiando la guerra e l’odio. Soprattutto quando succedono degli attentati alla cieca com’è stato quello di Nizza. Il bersaglio non erano certo i cristiani o gli ebrei, ma tutti, indiscriminatamente”.

“Esistono statistiche sulle vittime degli attentati, e quelle musulmane sono sei volte più numerose delle altre, eppure questi attacchi vengono commessi in nome dell’Islam. Attacchi come quello di Baghdad del 3 luglio scorso, che è costato la vita a quasi 300 persone, in Europa passano in sordina. Si tratta di quella che nelle scuole di giornalismo viene chiamata la ‘regola del morto chilometrico’: fa più notizia un innocente ucciso vicino casa nostra che mille persone trucidate più lontano. Quindi c’è anche questa dimensione da tenere in considerazione”.

Come uscire da questa trappola?
Bisogna agire, sia i media sia la politica devono riflettere su questi punti: il terrorismo è una guerra contro l’umanità. Cristiani, ebrei, musulmani, laici, atei, sono obbligati a tendersi la mano e gesti- re questa situazione insieme. Veniamo attaccati tutti nello stesso modo”.

Qual è la situazione della libertà di stampa nel mondo arabo?
“Paesi come la Tunisia e la Mauritania sono classificati come luoghi in cui la libertà di stampa è reale. Accanto abbiamo purtroppo delle situazioni molto diverse come la Libia, l’Algeria, l’Egitto, per non parlare dei Paesi del Golfo dove la libertà di stampa è molto limitata, specie sulle questioni politiche. Il mondo arabo però nutre ancora speranza grazie all’avvento dei nuovi media e delle reti sociali. Questi nuovi media sono riusciti a spezzare la censura ufficiale e a diffondere i messaggi dei cittadini che in prima persona contribuiscono a svelare i segreti sulle questioni di malgoverno, di corruzione e di violazioni dei diritti umani”.

“La società civile ha iniziato a diventare un attore importante e a usare questi mezzi per mobilitarsi. Penso che chi oggi voglia conoscere realmente il mondo arabo non debba limitarsi ai media classici ma consultare siti web alternativi e cercare testimonianze dirette di giornalismo partecipativo. Si tratta per la maggior parte di non professionisti ma questi scorci danno un’idea più onesta rispetto alla propaganda ufficiale. Nel nostro progetto ampio spazio verrà dedicato all’importanza dei media sociali”.

A proposito di media sociali, come valuta l’utilizzo di FaceTime da parte di Erdogan durante il tentativo di col- po di stato in Turchia?
Erdogan è conosciuto da tutte le organizzazioni internazionali per essere un nemico della libertà di stampa. È paradossale che, trovandosi in difficoltà, sia ricorso proprio ai mezzi di comunicazione che lui stesso vuole vietare nel suo Paese. Questo gesto è molto significativo e fa riflettere sulla potenza di questi nuovi mezzi di comunicazione. Uno degli obiettivi principali dell’Ajo sarà infatti la difesa della libertà di stampa: ci occuperemo di diffondere articoli che denunciano ogni sua restrizione. Non si può parlare di democrazia se si priva la stampa della sua libertà e si scelgono i media in funzione della propria appartenenza politica. Democrazia non significa il prevalere della dittatura del 51% sul 49%, ma è il rispetto anche delle minoranze. I media devono restare indipendenti e liberi indipendentemente dal Governo in carica”.

Come vengono percepite nel mondo musulmano misure come la legge ticinese che vieta il burqa? Come viene vista la Svizzera?
Nel mondo arabo ci sono diversi Paesi come la Tunisia, il Maghreb, la Siria e l’Iraq dove l’utilizzo del burqa risulta fuori luogo tanto quanto in Svizzera. Bisogna ricordare che il velo integrale è prerogativa dei Paesi del Golfo, come Yemen, Oman e Arabia Saudita. Non è affatto usanza dei Paesi mediterranei ed è molto raro vederlo per le strade di Tunisi, Casablanca o Algeri dove è inoltre vietato negli spazi pubblici. Capiamo benissimo che per i nostri vicini europei possa essere pericoloso per la sicurezza e un evidente segno di mancata integrazione. Non bisogna però farne una questione di identità musulmana, che è invece quello che vogliono farci credere i gruppi estremisti per creare un clima di diffidenza. È importante che ci siano delle regole perché non ci si sottometta a questo ricatto identitario”.

“Chi non l’autorizza viene accusato di razzismo e violazione dei diritti umani, ma è proprio questa la trappola. Normalmente i me- dia arabi sono abbastanza modernisti e laici, ma la via che gli estremisti vogliono sfruttare è quella di sollevare falsi problemi strumentalizzando per esempio la notizia che la Svizzera ha vietato i minareti. Bisogna certo difendere il diritto dei musulmani ad avere dei luoghi di culto, ma il minareto serve da richiamo alla preghiera e questo non avrebbe senso in un Paese cristiano. Si tratta di una provocazione. Nei Paesi del Nord Africa non ci sono state indignazioni per queste scelte, lo stesso vale per la scelta di vietare il burqa. Ci sono però altre questioni più delicate che hanno sollevato molte discussioni come le leggi sull’immigrazione e l’inasprimento delle sue regole”.

La Tunisia è sempre stata un luogo si- curo dove trascorrere le vacanze e uno dei Paesi più moderati del mondo ara- bo. Qual è la situazione attuale?
Con l’attacco al Museo del Bardo e quello di Sousse nel 2015 è stato colpito il cuore dell’economia tunisina. Oggi gli hotel non sono completamente vuoti ma la clientela tradizionale proveniente da Francia, Germania, Belgio e Gran Bretagna non si vede più perché la Tunisia continua ad essere ingiustamente classificata tra i Paesi a rischio terrorismo. Ma bisogna purtroppo constatare che non esiste più nessun Paese che si possa considerare sicuro. Tra le 84 vittime di Nizza, una trentina erano musulmane, quindi più di un terzo del totale. Si deve ricordare questa dura realtà a chi vuole spargere odio tra le religioni. Il terrorismo non mira ai cristiani, agli ebrei o ai musulmani. Il terrorismo è un atto barbaro che colpisce senza discriminazione tutti, compresa la propria famiglia. Ma di questo non si parla mai”.

Articolo pubblicato originariamente dal Corriere del Ticino il 4 agosto 2016 con il titolo “E’ dall’ignoranza che nasce l’odio”

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