In occasione delle recenti manifestazioni di Hong Kong si è scritto molto sul ruolo dei social network utilizzati per coordinare le proteste e si è fatto giustamente riferimento alle differenze di accesso agli stessi tra Cina continentale e l’ex colonia britannica.
È infatti risaputo che molti servizi occidentali non sono accessibili in Cina continentale e il blog Pingwest ha rilevato come lnstagram sia stata l’ultima applicazione in ordine di tempo a non essere più accessibile in diversi app store Android. A tal proposito è opportuno ricordare che la decisione di Google del gennaio 2010 di abbandonare il mercato cinese reindirizzando i propri server ad Hong Kong ha permesso la nascita e lo sviluppo di centinaia di piattaforme Android indipendenti che con gli anni hanno di fatto sostituito Google Play, inaccessibile per la gran parte dei dispositivi mobile nella Cina continentale.
Josh Horwitz su TechinAsia ha implementato la ricerca di Pingwest facendo notare che il download di Instagram non era più disponibile da Baidu App, Xiaomi, Wandoujia, Qihoo e 91 Wireless, alcune delle più popolari piattaforme Android in Cina. Al contrario, Instagram era invece disponibile e funzionante nel caso di tutti i dispositivi e delle piattaforme Apple. L’impossibilità di effettuare il download dell’applicazione di photosharing va associata ad altri noti casi di censura che coinvolgono altrettanto popolari servizi di social network e blogging come Twitter, Facebook, Google +, WordPress e Tumbrl, tutti oscurati in Cina continentale (per una lista aggiornata sui siti web censurati in Cina si consulti l’archivio di Greatfire.org).
Se da un lato i dati rilasciati da Twitter palesano un record di oltre 1,3 milioni di tweet inerenti le proteste a Hong Kong, in Cina continentale il controllo ed eventuale oscuramento di messaggi legati al movimento #occupycentral su Sina Weibo, la piattaforma di microblog più popolare in Cina, ha registrato il livello più alto di censura quest’anno come confermato anche dai dati del database Weiboscope gestito dalla scuola di giornalismo e media studies dell’univeristà di Hong Kong e pubblicati anche dal South China Morning Post. Oltre a Sina Weibo anche la popolare applicazione mobile di messaggistica istantanea WeChat (in cinese Weixin) è stata recentemente impegnata in attività censorie inerenti la manifestazioni nella ex colonia britannica.
Questo ultimo fenomeno ha un suo interesse anche in chiave globale. Infatti, non solo vi sono sempre più utenti cinesi che utilizzano applicazioni e servizi internet dalla Cina continentale lontani dal proprio paese di origine, ma è possibile registrare un discreto apprezzamento di servizi Internet cinesi anche da parte di utenti di altre realtà come quella sudamericana, indiana, sudestasiatica, italiana e spagnola.
Negli ultimi anni, infatti, la Cina sta sostenendo una politica industriale nel settore Internet anche fuori dei suoi confini nazionali e inserita nella così detta “going out strategy” (“走出去”战略,“Zhouchuqu” Zhenlue), strategia presentata nel 1999 e implementata dal Partito Comunista Cinese e finalizzata a sostenere gli investimenti cinesi all’estero. È opportuno ricordare a tal proposito come tre delle aziende Internet più famose in Cina abbiano già eseguito con successo un’Ipo presso il NASDQ di New York: il portale online Sina nel 2000, il motore di ricerca Baidu nel 2006 e più recentemente la società di e-commerce Alibaba. Quest’ultima ha persino registrato il record storico di 231 miliardi di dollari ottenuti al debutto. Un altro esempio che testimonia questa tendenza è proprio la stessa WeChat, applicazione di messaggistica istantanea con un bacino di utenza di oltre 438 milioni di utenti di cui oltre il 30% fuori dai confini nazionali grazie anche a una puntuale traduzione del servizio in oltre sette lingue diverse e a una massiccia campagna promozionale.
Ovviamente, non è ancora il momento di giudicare l’efficacia della “going out strategy” nonostante sia già possibile mettere in luce almeno un paio di criticità inerenti la sostenibilità del progetto stesso, almeno limitatamente all’industria di Internet.
La prima è di natura economica. È infatti risaputo che già in passato alcuni social network cinesi sono stati costretti a ridimensionare il proprio business anche a causa di sempre più alti investimenti sia nel personale che nel software dedicato al controllo e alla censura dei contenuti ospitati nei loro spazi di discussione. Tale preoccupazione è stata palesata anche dallo stesso CEO di Sina Charles Chao nel marzo del 2012 a margine dell’imposizione da parte dall’Information Office del Consiglio di Stato di promuovere la registrazione reale del nome a tutti gli utenti sulla piattaforma di microblog. In quella occasione Chao lamentò come la nuova regolamentazione avrebbe influito negativamente sia nella crescita in termini di utenza del proprio servizio sia nell’attività degli stessi utenti già iscritti.
La seconda considerazione è invece legata alla credibilità e all’affabilità delle aziende cinesi in merito alla trattamento di dati sensibili e libertà di espressione. La storia recente ha dimostrato come tale modello abbia riscontrato un indubbio successo nella Cina continentale, non è tuttavia certo che sia possibile ottenere gli stessi risultati anche fuori dai confini nazionali. Questa seconda osservazione è ancora più rilevante se messa in relazione con il discutibile successo della “going out strategy” implementata nel caso dei media tradizionali e già chiaramente criticata dal Prof. Hu Zhengrong della Communication University of China.
Photo credits: Aaron Guy Leroux / Flickr CC
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