“Fatto. Metti like alla foto del mio profilo, grazie!”. “Fatto. Puoi ricambiare la foto che vuoi”. “Fatto. Ricambiate? Mi aiutate a mettere like alla foto di mia moglie e mia figlia? La trovate tra i primi commenti a questo post, grazie a tutti!!!”.
Queste sono solo alcune delle frasi in cui potreste imbattervi se entraste a far parte di un Instagram pod, anche chiamato engagement pod, engagement group o DM group (nel caso in cui si trovi su Instagram). Un Instagram pod è composto da utenti Instagram che si organizzano per aiutarsi a vicenda e aumentare la loro visibilità sulla piattaforma tramite lo scambio di like, commenti e follows. Gli Instagram pod si possono trovare su molte piattaforme diverse: Facebook, Instagram, Telegram e WhatsApp sono le piattaforme più utilizzate per ospitare questi gruppi. Il termine ‘pod’ in inglese significa sia branco di delfini che l’insieme di legumi contenuti in un baccello. L’idea di pod suggerisce già un gruppo di persone che agisce collettivamente nella stessa direzione, mosso da interessi comuni. I membri di un pod sono tutti accomunati dallo stesso scopo: accrescere la propria visibilità sulla piattaforma senza dover ricorrere a sponsorizzazioni dei propri contenuti.
I pod rappresentano un fenomeno molto interessante per gli studiosi di media digitali, perché costituiscono la prova concreta dell’esistenza di forme solidali e cooperative tra i creatori di contenuti delle piattaforme digitali, che invece favoriscono e premiano la competizione e il talento individuale. L’esistenza dei pod mette in crisi sia la retorica dominante delle piattaforme, che il loro modello di business.
Questi gruppi rappresentano per Instagram un problema economico e di reputazione, perché: 1) permettono a migliaia di utenti di ottenere, gratuitamente, un aumento di visibilità dei propri contenuti che Instagram invece vorrebbe fornire solo come servizio a pagamento. Questo comporta una notevole perdita di introiti nel tempo e su larga scala per Instagram; 2) oltre a rappresentare un problema economico, i pod sono una minaccia alla reputazione di Instagram. Da sempre, infatti, Instagram basa il suo successo economico sulla fiducia che gli investitori economici ripongono nella capacità della piattaforma di mettere in contatto il loro target con il brand per cui stanno investendo. Se questi investitori dovessero sospettare che i dati di engagement prodotti dai post da loro sponsorizzati non fossero “autentici” ma gonfiati artificialmente, perderebbero fiducia nella piattaforma, disinvestendo i loro soldi. È per questo motivo che Instagram teme moltissimo questa pratica e ha messo in campo diverse strategie per combatterla, anche se non riesce mai del tutto ad eliminarla.
Un po’ per via della sua novità, e un po’ per via del carattere “clandestino” di questi gruppi, gli studi su questo fenomeno sono ancora molto rari. Per comprenderne meglio le dinamiche, insieme al mio gruppo di ricerca abbiamo provato a studiare i pod “dall’interno”, cioè entrando in questi gruppi e osservando cosa accade.
Il lavoro di ricerca è iniziato nel 2019, grazie ad un progetto di tesi di una mia laureanda, Francesca Murtula, e finalmente nel 2022 abbiamo pubblicato, insieme a lei e al mio collega Emiliano Treré, i risultati di questa ricerca in un articolo scientifico.
Qui proverò a riassumere i risultati di questa ricerca, che possono essere molto utili per la comprensione del fenomeno della “piattaformizzazione delle industrie culturali” (Poell et al. 2022): le tradizionali professioni legate alla produzione di contenuti culturali sono sempre più influenzate dalle proprietà delle piattaforme digitali e dal loro nuovo ruolo di “gatekeeper”, ovvero di intermediari non neutrali che stabiliscono le regole per la circolazione di immagini, notizie e video.
Scrittori, fotografi, bloggers e influencers freelance che producono contenuti per Instagram e che tentano di costruirsi una professione, un reddito e una reputazione su questa piattaforma, dipendono economicamente dalla visibilità che la piattaforma attribuisce loro tramite i suoi algoritmi proprietari. Ma, come mostra l’esistenza dei pod, questa visibilità stabilita algoritmicamente, è messa costantemente in discussione dagli utenti ed è oggetto di negoziazioni, resistenza e tentativi di manipolazione “dal basso”.
L’indagine sul campo si è svolta nel periodo che va da ottobre 2019 a maggio del 2020; durante i sei mesi l’osservazione del fenomeno è stata quotidiana ed arricchita con interviste semi-strutturate a nove micro-influencer di Instagram. Quando usiamo la parola ‘campo’ in questa ricerca non ci riferiamo a un unico campo, delimitato nello spazio e nel tempo, ma a una serie di campi digitali. La nostra è stata un’etnografia digitale multi-situata, realizzata all’interno di gruppi di chat online privati, come WhatsApp e gruppi chiusi di Facebook.
Come funzionano i Pod
I pod esistono da quando è nata Instagram ma hanno iniziato a diventare davvero popolari solo a partire da luglio del 2016, quando Instagram ha sostituito il feed cronologico con uno curato algoritmicamente. Subito dopo questa modifica, i creatori di contenuti su Instagram hanno cominciato a notare un crollo dei dati sull’engagement e sulla visibilità dei propri post. Molti utenti hanno mostrato la propria rabbia per questo cambiamento e hanno creato l’hashtag #keepinstagramchronological. Una petizione di Change.org che chiedeva a Instagram di riportare in ordine cronologico le sue notizie ha raccolto 343.011 firme (Heard, 2016). O’Meara (2019) ha interpretato i pod come una “risposta tattica dal basso alle condizioni algoritmiche della produzione culturale” (p. 6, T.d.A.).
Instagram (2020) considera questi gruppi illegittimi e lavora costantemente per scoprirli e cancellarli. Il punto 17 delle norme della Platform Policy di Instagram invita esplicitamente gli utenti a “non partecipare in alcun programma di scambio di like, commenti e condivisioni”, mentre nelle Community Guidelines della piattaforma è presente un richiamo a non “gonfiare artificialmente like, followers o condivisioni”.
I pod si creano a partire da diverse piattaforme (Instagram, Facebook, Telegram) e di solito hanno una vita effimera e contingente. La grandezza di ogni pod dipende dalle affordances (Davis, 2020) delle piattaforme che le ospitano (a loro insaputa). Su Instagram qualsiasi gruppo non può avere più di 32 membri, mentre su Facebook non sembra esserci un limite al numero di membri di un gruppo chiuso. Su Telegram i gruppi possono raggiungere un massimo di 200.000 membri, per questo solitamente gli amministratori scelgono di usare un bot per controllare i membri; mentre i gruppi su WhatsApp non possono andare oltre i 256 membri.
Ogni gruppo viene amministrato da una o più persone che si impegnano nel fissare le regole del gruppo, controllare che vengano rispettate, accettare o rifiutare nuovi membri.
I gruppi non solo sono diversi a seconda della piattaforma sulla quale nascono e si sviluppano, ma anche per il tipo di interazione che gli utenti si impegnano a scambiarsi al loro interno: esistono pod in cui si scambiano solo follows, altri in cui si scambiano unicamente commenti, gruppi di solo scambio like e, infine, gruppi in cui si scambiano tutte le precedenti modalità di interazione.
Un’altra differenza importante è l’assenza o la presenza di un tema all’interno di un pod. Ruben, 29 anni, micro-influencer che vive a Milano, ha affermato che all’inizio era “in gruppi veramente dove c’era di tutto”, espressione che ha usato per descrivere i gruppi in cui non c’è un tema principale e per differenziarli da quelli che egli ha definito “in target”; anche Abramo, micro-influencer da Verona, ha parlato di gruppi “generalisti” in contrapposizione a quelli “di nicchia”. Nel secondo caso, possono essere gruppi che condividono la stessa passione, come la fotografia o il cibo. Questa differenza è molto importante, come vedremo, perché nei gruppi in cui il numero dei membri è limitato e che sono uniti da una passione comune, il grado di supporto, mutualismo e solidarietà è più alto.
I pod rappresentano per i propri membri, allo stesso tempo, una scuola e un mercato. Per prima cosa i pod sono una ‘scuola’ informale dove i membri apprendono i ‘trucchi del mestiere’: gli utenti entrano in un pod per scambiarsi informazioni sul funzionamento della piattaforma, per scoprire ‘trucchi’ su come ricevere più like, per confrontare le proprie conoscenze sul funzionamento dell’algoritmo con quelle degli altri membri. In questi gruppi circolano molte “folk theories” (DeVito et al., 2017) sul funzionamento dell’algoritmo di Instagram e i più esperti – gli influencer che usano la piattaforma da più tempo – condividono con i neo-arrivati, le loro teorie.
Oltre ad essere una palestra dove accrescere la propria conoscenza sulla piattaforma, un pod è soprattutto un mercato dove i suoi membri, “clandestinamente”, si scambiano oggetti di valore, in questo caso like, commenti e follow-back. I pod sono uno strumento per far crescere il proprio profilo Instagram senza ricorrere alle sponsorizzazioni.
I pod come forma di solidarietà e resistenza al potere degli algoritmi
Non solo i pod vengono considerati l’unico modo per aumentare la propria visibilità se un influencer non ha soldi da investire nella sponsorizzazione dei propri contenuti, ma essi sono anche percepiti come una vera ancora di salvezza. Un micro-influencer ci ha spiegato così la sua dipendenza dai pod: “Non dico che appoggiarsi a questi gruppi […] diventi una droga, ma essi diventano il salvagente in mezzo al mare […] lo stesso micro-influencer farà sempre fatica, a meno che non arrivi a dei numeri altissimi, a staccarsi dai gruppi; ci sono alcuni che hanno 50.000 follower e sono ancora dentro i gruppi”.
Il micro-influencer ha affermato, inoltre, che la fatica di abbandonare i gruppi deriva proprio dalla paura di non poter fornire il servizio per il quale l’azienda lo aveva contattato, perciò il micro-influencer rimane sempre attivo all’interno dei gruppi perché magari “arriva il cliente grande, l’occasione della vita; e io adesso riesco a dargli quel servizio lì che gli ho assicurato? O devo raccogliere 10.000 follower prima di poterlo fare?”. I pod sono quindi delle reti di salvezza, dei “salvagenti in mezzo al mare”, ai quali aggrapparsi quando si rischia, metaforicamente, di affogare.
Se, da un lato, i membri dei pod utilizzano un regime discorsivo basato sulla reciprocità e sulla crescita collettiva, dall’altro, Instagram fa leva su una retorica opposta: si può crescere soltanto da soli: o pagando (poiché pagando la sponsorizzazione dei propri post, gli utenti possono raggiungere più “copertura”) oppure attraverso una crescita che Instagram definisce “organica” ed “autentica” e, perciò, una crescita “meritata” (Petre et al., 2019).
Instagram promuove un discorso retorico in cui soltanto i più talentuosi e meritevoli vengono premiati con la visibilità, un modello di crescita fondato su una morale individualistica e meritocratica tipica dell’etica neoliberale che i progettisti della piattaforma hanno codificato negli algoritmi di selezione che la alimentano. Questo tipo di morale caratterizza Instagram fin dalla sua nascita, come documenta O’Meara (2019), ed è necessaria per alimentare il proprio modello di business fondato sulla pubblicità (Petre et al. 2019).
La logica su cui si basano i pod invece è diversa e fa leva sull’etica della crescita “tutti insieme”: nelle descrizioni dei gruppi si parla di rispettare le regole, di “ricambiare onestamente”, “non fare i furbi”, “aiutare”, “darsi una mano”: “Per favore, ricambia” è la frase più ricorrente all’interno dei pod. Cos’è questo, se non il grado zero di un linguaggio ‘mutualistico’, basato su un’etica cooperativa, in cui la crescita si può raggiungere solo uniti?
Che siano o meno consapevoli, la semplice partecipazione dei micro-influencer al pod rappresenta pur sempre una forma di resistenza al codice morale neoliberale di Instagram.
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