L’innovazione tecnologica e la possibilità di utilizzare media e canali informativi-distributivi diversi da quelli tradizionali, ha portato il giornalismo a confrontarsi con una più ampia e numerosa platea di lettori. I numeri che gravitano attorno ai news-site più popolari parlano da soli: si tratta, infatti, di milioni di visitatori contrariamente a quanto avveniva in passato, dove le cifre associate al prodotto cartaceo erano dell’ordine delle centinaia di migliaia di lettori. Al di là della sfida nell’adeguare risorse e e competenze imprenditoriali e giornalistiche per sfruttare al meglio le opportunità dei nuovi media, uno sforzo non certo irrilevante, il passaggio e la transizione progressiva a nuove forme di giornalismo, online e digitale, ha comportato e comporta la ricerca di una rinnovata sostenibilità economica. Monetizzare la domanda di un nuovo giornalismo, in un mercato sorretto da logiche diametralmente opposte a quelle che hanno prevalso nella dimensione cartacea, è diventato essenziale alla sopravvivenza dell’informazione.
Insomma, per esistere il giornalismo deve generare ricavi. Il problema è, da una parte trovare il modo di riuscire a convincere i lettori a pagare per quel che leggono (se non per il web, quanto meno per i servizi digitali su smartphone e tablet, così come per prossime futuribili tecnologie che si introdurranno in un prossimo futuro), dall’altra riuscire a traslare i formati pubblicitari cartacei in formati che rispondano a una logica di consumo il più possibile coerente con i nuovi media. Non solo, significa ricercare modelli di business che siano meno economicamente dipendenti dalla pubblicità: è infatti ancora tutto da dimostrare che la pubblicità, di per sé stessa, possa produrre un flusso di ricavi sufficiente a garantire l’esercizio di un’attività complessa e costosa come, per l’appunto, si dimostra essere la produzione di informazione. Quest’ultimo è uno degli aspetti cruciali che riguardano la pratica editoriale attuale. Come giustamente osserva Michael Wolff sul Guardian, all’evolvere delle modalità di fruizione dell’informazione – dalla carta al web, dal web al digitale – ha corrisposto una costante diminuzione del valore unitario del costo pubblicitario.
Come più volte osservato da molti analisi e osservatori, la pubblicità su web ha un costo di gran lunga inferiore a quello su carta, circa un decimo. Una dinamica che viene reiterata ed esasperata con l’affermarsi dei dispositivi di nuova generazione come smartphone e tablet, poiché il costo pubblicitario su questi ultimi dispostivi è a sua volta di gran lunga inferiore a quello sul web. Wolff esplicita il tutto con una formula di grande efficacia, formula che tende a rappresentare il tasso di conversione del costo pubblicitario sui tre diversi media: 100 $ su carta = 10 $ su web = 1 $ su mobile. Una situazione che pone, evidentemente, una serie di problemi, soprattutto ai giornali di media e piccola dimensione. La riduzione del costo pubblicitario può essere sostenibile soltanto in presenza di flussi di traffico di grandi dimensioni o, parlando di prodotti digitali, di un elevatissimo numero di utenti. Se diamo per buona la formula di Wolff, vorrebbe dire che i lettori delle edizioni digitali dovrebbero essere 100 volte superiori a quelli del dorrispettivo cartaceo, in quanto il tasso di conversione è 1 a 100. Vorrebbe dire che se ho 100 mila lettori su carta, per ottenere un uguale fatturato su smartphone e tablet dovrei riuscire ad averne 10 milioni!
Vi è poi un ulteriore aspetto su cui riflettere, il media preferito dalla pubblicità, rimane, sempre e comunque, la televisione. Tra tutte le modalità di diffusione dei messaggi rivolti all’acquisto quello che più piace all’investitore, quello che viene ritenuto più efficace, è la scatola nera per definizione. Una tendenza che risulta essere vera nonostante il crescente utilizzo e diffusione di nuovi media mobili. In base al rapporto citato da Wolff, in UK nell’ultimo trimestre 2011 i ricavi pubblicitari della TV sono aumentati del 7,7% mentre il valore della pubblicità su web è diminuito del 5,5%. La dimensione mobile non è neanche menzionata perché ancora del tutto trascurabile.
L’evoluzione e diversificazione della distribuzione dell’informazione, così come avvenuta in questo ventennio, espone perciò il produttore, chiunque esso sia, a dovere immaginare un modello di sostenibilità che deve fare i conti con una progressiva e , quanto meno fino ad adesso, ineluttabile contrazione del contributo remunerativo offerto dalla pubblicità. Come osserva Wolff il consenso convergente verso modelli di pagamento è la conseguenza di un processo: se fino a qualche anno fa la maggioranza riteneva che il pay per use non avrebbe mai funzionato, ora si è sempre più convinti che sia inevitabile.
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