Il modello di business del giornalismo è arrivato al capolinea. I lettori si stanno spostando sull’online e vogliono avere le notizie gratuitamente. Come affrontare la nuova sfida? La dissolvenza incrociata tra carta e web non trova pari riscontro sul fronte pubblicitario né, forse, mai lo troverà. Il valore della pubblicità non sta traslando al web nella stessa misura in cui si verifica lo spostamento dei lettori dall’uno all’altro mezzo. Quale sarà il futuro dell’industria dell’informazione? E’ la domanda che si pone Raju Narisetti, direttore editoriale del Washington Post, le cui riflessioni sono raccolte in un lungo articolo pubblicato su Forbes. La sua tesi è che in gioco non sia tanto il giornalismo in quanto tale, ma il modello industriale di riferimento e che la soluzione non debba e non possa essere ricercata nei sistemi a pagamento.
Più e più persone leggono lo storico quotidiano USA. Il numero è in costante aumento ed è di gran lunga superiore a quello registrato ai tempi d’oro del Watergate. Nel 2010 si è registrata una media di 29,3 milioni di visitatori/mese per un totale di 287 milioni di pagine. Certo, la pubblicità è in crescita. Sull’online i ricavi si aggirano attorno agli 80 milioni di dollari l’anno, una cifra considerevole, ma ancora di gran lunga inferiore a quella generata dalla carta. Nello stesso tempo, nell’ultimo anno, si sono persi 35.000 abbonamenti, una perdita economica rilevante poiché ciascun lettore della versione cartacea vale 275 dollari l’anno, cifra che non viene proporzionalmente compensata o ammortizzata dall’aumento di contatti che si verificano su web.
Di fronte a questa situazione emerge sempre più chiaramente che il problema è strutturale: “L’organizzazione non è allineata alla realtà di mercato, i costi sostenuti sono eccessivi e non corrispondenti al ricavo complessivo carta + online”. Tutto ciò nonostante nel corso degli ultimi anni si sia tagliato drammaticamente il costo di redazione”.
Nel passato le risorse giornalistiche del giornale ammontavano a 1.100 unità, oggi si sono ridotte a 640. In questo processo di alleggerimento non è però venuta meno la qualità come testimoniano i 5 premi Pulitzer vinti negli ultimi anni. Si è operato un cambiamento a livello di processi e si sono introdotti nuovi ruoli, prima inesistenti: search & traffic editor, mobile editor, engagement editor, social media editor, blogger.
“Si sono investiti 7 milioni di dollari in un nuovo sistema editoriale e il budget di redazione è stato ridotto di 14 milioni di dollari. Ma tutto questo non è ancora sufficiente. Considerato lo scenario attuale il declino dei brand più noti è destinato ad accelerare. Sono problemi comuni a tutti e la risposta degli editori si riflette in una miriade di esperimenti. Il Financial Times e il Wall Street Journal, si possono permettere di far pagare i propri contenuti. Così lo possono fare altri giornali della galassia News Corp di Murdoch, grazie alle enormi risorse finanziarie di cui può disporre. La novità dell’anno è stato l’introduzione del sistema a pagamento del NYT, un paywall ibrido che garantisce sufficiente apertura e consente di preservare una buona percentuale dei flussi di traffico, ma è un esperimento che è ancora tutto da valutare”.
“La questione, ribadisce il managing editor del WP, non si può ridurre alla contrapposizione tra paywall e free media. Deve esistere la consapevolezza che il digitale è il futuro, ma che la carta è ancora il presente. E’ chiaro è che il flusso delle attuali entrate non può sostenere la missione. E soprattutto non esiste alcun modello a pagamento che non crei conflitto rispetto alla raccolta pubblicitaria”.
L’assunto di base da parte di tutti coloro che hanno sposato la logica del paywall è però condivisibile: la creazione di contenuti è costosa e la qualità multimediale, che deve essere parte integrante dei nuovi prodotti, costa un sacco di soldi. La cura è però da ricercarsi in altre modalità: “il percorso che porta alla salvezza deve essere trovato al di fuori della formula a pagamento”
Narisetti cita quali sono i motivi di queste sua convinzioni:
- Il modello a consumo è ritagliato sulle esigenze dei lettori più fedeli e affezionati, quelli che leggono di più. Da nostre valutazioni questo numero è costituito da circa il 5% dei lettori nei confronti dei quali vengono accreditate circa il 50% della pagine visitate
- Gli aggregatori, come il caso dell’Huffington Post, troveranno sempre il modo per distribuire contenuti prodotti altrove poiché il loro modello non consente e non prevede di investire più di tanto nella creazione di contenuti originali
- La gestione dell’infrastruttura dei sistemi di pagamento – la sicurezza dei dati, l’acquisizione e la conservazione degli stessi – costa un sacco di soldi mentre il prezzo che si può fissare per la sottoscrizione deve essere necessariamente basso. Fattori che rendono estremamente difficoltoso e rischioso il ritorno dell’investimento.
- La navigazione su web offre un’esperienza di lettura di più basso livello rispetto a quella, più ricca, garantita da nuovi dispositivi digitali, vedi iPad e iPhone. Come possiamo loro chiedere di pagare per un contenuto di qualità inferiore?
La soluzione, per il Washington Post, deve essere ricercata ripensando l’organizzazione e individuando nuovi processi che possano favorire nuovi flussi di fatturato da piattaforme digitali, così come pensare alla creazione di strumenti che consentano una condivisione dei ricavi con soggetti come Huffington Post e Yahoo!.
“L’industria editoriale soffre di un deficit di immaginazione. Dobbiamo pensare a come trasformare i nostri prodotti perché possano essere più utili al lettore, soddisfacendo quegli stessi criteri che sono alla base di social network come Facebook, LinkedIn, Twitter. Non c’è più tempo per pensare in modo incrementale all’evoluzione del giornalismo, conclude Narisetti, è necessario introdurre nuove regole”.
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