Media e diversità: lasciateci raccontare le nostre storie

17 Giugno 2016 • Etica e Qualità, In evidenza • by

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Un migrante a Idomeni La Veu del País Valencià / Flickr CC

I profughi che cercavano di raggiungere le spiagge europee hanno fatto notizia per tutto lo scorso anno e tuttora si incontrano reporter e fotografi che si affollano intorno ai sopravvissuti, scattando foto e cercando di ottenere dichiarazioni. L’interesse dei media è però di breve durata, una volta lasciate le spiagge le voci dei rifugiati e dei migranti raramente vengono ascoltate di nuovo.

I migranti sono fra le minoranze meno visibili nell’informazione cartacea, televisiva e online, ma molte altre sono le comunità le cui storie raramente trovano spazio nei media: le donne, le minoranze etniche, le persone affette da disabilità mentale, psichica o motoria e la comunità LGTB. Del tema si è discusso in un panel (cui ha partecipato anche l’autrice, ndr) durante l’ultimo International Journalism Festival di Perugia.

La scarsa diversità negli staff delle redazioni è una delle cause di questo problema. Quasi vent’anni di iniziative europee (da parte di media, Ngo, organizzazioni intergovernative e authority) volte a rafforzare la diversità e la non-discriminazione non hanno migliorato in maniera significativa lo stato delle cose. L’ultima edizione del Global Media Monitoring Project, condotto sui media di 140 paesi, ha rilevato infatti come, nel 2015, le donne costituissero meno di un quarto (24%) delle persone citate, ascoltate e trattate dalle emittenti e dai giornali. La percentuale era la stessa nel 2010.

La City University di Londra ha di recente fatto notare come i lavoratori del comparto mediatico britannico siano per il 94% bianchi, laddove le minoranze etniche costituiscono in media il 15% della popolazione (a Londra il 30%). I dati dello studio dell’università londinese, inoltre, indicano come le donne impiegate nei media siano sottopagate e sottorappresentate rispetto ai colleghi maschi. Un’altra ricerca della Coventry University ha invece rilevato come i migranti vengano nominati solo nel 15% degli articoli pubblicati sul tema dell’immigrazione.

Nel suo rapporto dello scorso febbraio, “Victims and Villains: Migrant voices in the British media”, il Centre for Trust, Peace and Social Relations ha inoltre fatto notare come quasi la metà di tutti gli articoli in questione dipingano l’immigrazione come una minaccia e gli immigrati come “delinquenti”, effettivi o potenziali. Solo di rado i migranti (così come le donne) vengono intervistati come esperti nel loro campo– siano essi ingegneri, insegnanti, architetti o medici.

Le scelte editoriali dei media “mainstream” influenzano ancora in maniera sostanziale ciò che il pubblico percepisce come rilevante e autorevole. Ma non è solo un problema di visibilità – i media dovrebbero essere in grado di rappresentare le persone senza incasellarle in una categoria di riferimento – sia essa la disabilità, l’immigrazione o la discriminazione – bensi’ riconoscendone le molteplici dimensioni.

Durante il panel a Perugia si è discusso anche di come le competenze interculturali possano stimolare la creatività. Ritrarre la realtà in modo bilanciato e non-discriminatorio permette non solo il raggiungimento di un pubblico più ampio, ma contribuisce anche a costruire società più inclusive. Al tempo stesso, costruendo “ponti culturali” il giornalismo può creare nuove e stimolanti opportunità creative. I relatori hanno quindi invitato i giornalisti a considerare la diversità come una lente attraverso cui leggere gli eventi contemporanei.

Nel suo intervento, Kate Coyer, Research Director della Central European University a Budapest, ha indicato la produzione indipendente da parte di media alternativi e comunitari – definiti come il terzo settore dei media – come un modo efficace per coinvolgere e raggiungere diversi pubblici. Per Coyer, i community media giocano un ruolo cruciale nell’incoraggiare la partecipazione, promuovere l’inclusione sociale e la formazione.

Il diritto ad avere una voce
Larry Macaulay, fondatore di Refugee Radio Network, un network indipendente per immigrati e rifugiati attivo soprattutto in Germania, ha parlato del diritto ad avere una voce: chi puù parlare e chi decide cosa è rilevante? Quando alle persone è negata la pubblica partecipazione esse diventano più vulnerabili all’intolleranza e alla marginalizzazione: “se permettiamo agli altri di raccontare le nostre storie al posto nostro, siamo condannati”, ha affermato a questo proposito Macaulay.

Marina Lalovic di Rai Radio 3 ha invece fatto riferimento al proprio percorso professionale che partendo da voce radiofonica “straniera” l’ha portata a coprire una varietà di argomenti politici e culturali presso la radio del servizio pubblico italiano. Allo stesso tempo, Lalovic è stata anche ambasciatrice di MEDIANE, un programma finanziato congiuntamente dall’Ue e dal Consiglio d’Europa con lo scopo di includere la prospettiva delle minoranze nella copertura mediatica senza parlare esclusivamente dei loro problemi.

Curiosità, empatia e competenze transculturali facilitano la diversità
Per Mukti Jain Campion, produttrice indipendente per Bbc e fondatrice di Culture Wise Productions, il potenziale creativo della diversità va sfruttato in tutti gli aspetti della produzione mediatica: dalle storie, alle ambientazioni, fino alla scelta dei collaboratori. “Procedete con apertura, curiosità, empatia e umiltà; mettete in discussione la vostra visione del mondo. Cercate e ascoltate con attenzione le persone le cui voci non sono comunemente sentite”, ha dichiarato Campion. Portando punti di vista poco ascoltati a un pubblico più vasto si puo’ superare la percezione che i contenuti siano spesso “imposti” alle persone, piuttosto che sviluppati per coinvolgerle.

Come moderatrice del panel ho enfatizzato l’importanza di essere consapevoli dei propri pregiudizi: educazione, background culturale, esperienze e legami. Questi elementi possono influenzare il modo in cui i giornalisti vedono e rappresentano il mondo. Un approccio transculturale permette invece di riconoscere l’identità come qualcosa di complesso e sfaccettato, costantemente in evoluzione attraverso l’interazione. Secondo il Professor Richard Slimbach, autore di The Transcultural Journey, il transculturalismo mira a riconoscere interessi e valori comuni al di là di confini culturali e nazionali, “pensando fuori dagli schemi della propria patria”.

L’essenza del giornalismo è quella di mettere in questione, spiegare, esplorare nuove idee, spingere alla riflessione e sorprendere. Per questo la capacità di immedesimarsi nell’ ”altro” è fondamentale e dovrebbe diventare parte integrante della pratica giornalistica attraverso la formazione di base o specifici progetti.

La diversità comunque non viene totalmente ignorata, ma ha iniziato a trovare spazio nella fiction televisiva e nell’intrattenimento, come risultato di una strategia commerciale mirata a difendere quote di mercato e a favorire l’identificazione da parte di un pubblico più vasto. Anche le politiche in materia di assunzione delle emittenti del servizio pubblico così come le linee guida delle authority promuovono sempre piu’ spesso la diversità all’interno dello staff (donne, persone con un background migratorio, persone con disabilità) come strategia per una produzione mediatica più inclusiva. Riconoscere che la diversità ha molte sottili sfumature e che la complessità è diventata la norma nella società contribuisce alla non-discriminazione e all’uguaglianza.

Ma l’inclusione della diversità non è esclusivamente una responsabilità dei media – tutte le componenti della società (cittadini, amministrazioni pubbliche, associazioni e imprese) devono essere consapevoli dell’impatto della loro comunicazione, in particolare in un contesto sempre piu’ interconnesso. In quest’ottica nuove iniziative giornalistiche sono necessarie, ma queste devono essere basate su un più vasto dialogo interculturale in grado di evidenziare gli elementi e i valori comuni, al di là delle nazionalità, del genere, della lingua, del colore della pelle o delle (dis)abilità. Una tale consapevolezza può aiutare a far avanzare il dibattito sul ruolo dei media nella società.

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