Articolo redatto da Annik Dubied e Andrew Robotham
In Svizzera, i casi di discriminazione esplicita e volontaria nelle notizie di attualità costituiscono un’eccezione. In generale i giornalisti danno prova di attenzione ed evidente buona volontà in questo campo. Com’è possibile, allora, che da alcuni contenuti trapelino lo stesso degli effetti discriminanti? Per l’Università della Svizzera italiana hanno collaborato al progetto Giulia Ferri e il prof. Colin Porlezza dell’Istituto Media e Giornalismo.
Un fenomeno involontario
Per studiare le cause della discriminazione trasmessa dai mezzi d’informazione svizzeri bisogna anzitutto riconoscerne l’esistenza. I dati parlano chiaro: se ci si concentra sui mezzi d’informazione generalisti, in Svizzera la copertura mediatica che potrebbe costituire un reato secondo la norma penale contro la discriminazione razziale (art. 261bis CP) è estremamente rara, se non inesistente.
Avventurarsi oltre questa constatazione significa accettare una premessa spesso negata: i fenomeni che contribuiscono alla discriminazione sono molto diffusi, raramente sono espressione di un’intenzionalità chiaramente identificabile e agiscono in modo poco visibile. Gli effetti nefasti di questa sorta di meccanismo insidioso e multifattoriale sull’intera società si fanno sentire sempre più. I mezzi d’informazione, inquadrando il mondo che ci circonda in modo da favorire determinate interpretazioni, hanno inevitabilmente un ruolo di primo piano.
Su mandato della Commissione federale contro il razzismo (CFR) abbiamo analizzato articoli di stampa potenzialmente discriminatori nelle tre principali regioni linguistiche del Paese, per capire meglio come i mezzi d’informazione affrontino la creazione di contenuti sensibili. In particolare, ci siamo concentrati su notizie di attualità la cui ricezione e interpretazione alimentano i pregiudizi all’origine della stigmatizzazione.
Non si tratta quindi di dare del razzista o dello xenofobo al tale giornalista o al tale mezzo d’informazione, ma di capire come un sistema specifico – quello della produzione di notizie di attualità – possa alimentare la discriminazione. Le narrazioni giornalistiche analizzate rispecchiano linee editoriali eterogenee, di una stampa che potremmo definire generalista. Ciononostante, determinati articoli veicolano stereotipi negativi, riproducendo pregiudizi e contribuendo così alla discriminazione. Scopo del nostro studio è capire meglio come sono stati creati questi articoli e i loro elementi problematici.
In generale, la trattazione di comunità religiose, nazionali ed etniche minoritarie tende a concentrarsi su comportamenti o pratiche culturali considerati devianti, nonché sulla criminalità. In questo caso non si tratta di entrare nel dibattito sulla necessità o meno di trattare simili fatti, ma di constatare come spesso la mediatizzazione delle minoranze non vada oltre questi casi. Tali inquadrature (ri)producono e rafforzano gli stereotipi negativi, ingredienti alla base non solo del pregiudizio, ma anche della stigmatizzazione che gruppi e comunità minoritarie subiscono quotidianamente.
Questi aspetti sono stati oggetto di innumerevoli studi sui mezzi d’informazione e d’intrattenimento (p. es. van Dijk 2016; Bhatia et al. 2018). A prescindere dalla linea editoriale o dalla connotazione politica, la maggior parte dei mezzi d’informazione contesta con veemenza l’idea che l’informazione prodotta possa contribuire, anche involontariamente, alla discriminazione. Di fatto è difficile ammettere che la ricerca della verità al servizio dell’interesse pubblico – mantra giornalistico fondamentale – possa favorire la discriminazione. Le produzioni più problematiche, infatti, sono firmate da giornalisti malintenzionati, provocatori o veramente razzisti, che restano comunque l’eccezione e tendono a essere ostracizzati dai loro pari, esponendosi al contempo a sanzioni giudiziarie. Al di là dei casi più complessi, resta però un problema di fondo: involontariamente, i mezzi d’informazione contribuiscono alla creazione e alla riproduzione di stereotipi, pregiudizi e discriminazioni che gravano pesantemente sulla convivenza sociale.
I progetti di ricerca che hanno scandagliato la questione attraverso le prassi professionali e il sistema di produzione in cui sono inserite restano tuttavia rari. Rilevando che «i pregiudizi non spiegano tutto», Maneri e Ter Wal (2005, 5) si schierano a favore di un approccio che interroghi i fattori intrinseci ai sistemi di produzione dell’informazione pubblica «L’enfasi dei media sulla devianza e sulla criminalità degli immigrati scaturisce anche dalle routine e dai vincoli intrinseci alla produzione di notizie».
Abbiamo quindi analizzato questo contesto mediatico di discriminazione discreta e quasi sempre negata, concentrandoci sugli aspetti sistemici della produzione di testi mediatici con effetti potenzialmente discriminatori. Per «sistemico» intendiamo le modalità particolari di funzionamento e configurazione dei sistemi di produzione dei mezzi d’informazione.
Tra bias e volontà non discriminatoria
Come già rilevato, i giornalisti che lavorano per mezzi d’informazione generalisti svizzeri non hanno opinioni o convinzioni particolarmente discriminatorie. Spesso, come in altri contesti sociali, questi effetti discriminatori si verificano a dispetto delle persone all’origine dei discorsi, e non solo a causa di esse. I nostri studi hanno infatti rivelato un’elevata consapevolezza dei rischi di discriminazione da parte dei membri delle redazioni, che dimostrano una «buona volontà non discriminatoria» e si preoccupano della propria responsabilità. Dando prova di una grande capacità di contestualizzare le proprie scelte, i giornalisti elaborano strumenti volti a narrare i fatti nel modo più veritiero possibile, rispettando le persone interessate (due dei tre valori alla base del codice deontologico giornalistico, ossia verità, indipendenza, rispetto delle persone). Ciononostante, i giornalisti si ritrovano spesso in situazioni che ritengono impossibili da trattare in modo soddisfacente. È il caso, ad esempio, della nazionalità dei soggetti. Un elemento che – pur favorendo l’abuso di generalizzazioni da parte di alcuni esponenti del pubblico – è indispensabile per la comprensione di un caso criminale.
Se i giornalisti danno prova di un alto grado di riflessività rispetto al potenziale discriminatorio delle loro produzioni, non si può dire lo stesso per i bias d’inquadratura e di selezione evocati in precedenza. Risulta perciò doveroso interrogarsi sul problema della sotto-mediatizzazione delle persone appartenenti a minoranze, in contesti non problematici. Benché in Svizzera vivano numerose comunità di origine africana, balcanica o di religione musulmana, qual è la trattazione mediatica riservata a queste persone nei contenuti che non riguardano stereotipi di criminalità oppure usi e costumi considerati devianti?
Diverse caratteristiche del sistema mediatico, compresi la concorrenza, il genere e il formato, contribuiscono ampiamente a far emergere contenuti potenzialmente discriminatori. L’effetto principale di una forte concorrenza è l’urgenza di trattare e pubblicare una notizia. Capita così che vengano omessi elementi contestuali che potrebbero ridurre al minimo il rischio di generalizzazioni abusive oppure, viceversa, che vengano inclusi termini e formulazioni problematici, che un lavoro di rilettura più accurato non avrebbe lasciato passare. Proprio la concorrenza è all’origine della scelta dei media, talvolta deliberata, di smarcarsi dalle altre testate. Come prevedibile, queste logiche si muovono principalmente attraverso contenuti polemici con un forte potenziale discriminatorio, come quando un mezzo d’informazione decide di menzionare la cittadinanza di un sospettato allorché il suo concorrente non l’ha fatto.
Anche le scelte narrative e i vincoli di formato possono rafforzare il potenziale discriminatorio di una produzione. Lo storytelling, rispetto alla trattazione classica, può comportare formulazioni che alludono a stereotipi negativi. Allo stesso tempo anche un giornale cartaceo, riservando uno spazio molto limitato a un fatto di cronaca, può indurre i giornalisti a sacrificare elementi contestuali, fondamentali per evitare eventuali associazioni problematiche. Ecco perciò che su questioni come, ad esempio, le mutilazioni genitali, la jihad o la sharia, l’omissione di informazioni -per quanto fondamentali- sull’opinione dei musulmani che vivono in Svizzera si spiega più con vincoli di tempo o di spazio che non con un’agenda mediatica discriminatoria.
Élite simboliche
Il nostro studio conferma inoltre quanto riscontrato da altre ricerche, ossia che nel sistema produttivo giornalistico s’insinuano numerosi fattori esterni. Le fonti e il modo in cui sono citate (passaggi selezionati, messa in risalto di citazioni nel titolo o nell’intertitolo) svolgono un ruolo chiave nella comparsa di effetti potenzialmente discriminatori. Uno di questi effetti s’impone ad esempio quando fonti citate nel titolo, nel cappello o in intertitoli impongono un punto di vista o una designazione specifica: «Le ideologie e le prassi razziste non sono innate, ma apprese. Sono in gran parte acquisite attraverso il discorso pubblico. Tale discorso è controllato dalle élite simboliche. Le élite simboliche hanno quindi una grande responsabilità nella produzione e nella riproduzione quotidiana di varie forme di razzismo nella società, anche quando il razzismo popolare può diventare una forza sociale a sé stante» (van Dijk 2011, 10). Vi sono quindi alte probabilità che quando una citazione razzista o xenofoba di una personalità pubblica suscita polemica, la stessa venga utilizzata come titolo del contenuto dedicato al caso in questione.
Anche le informative fornite dalle fonti di polizia sono spesso riprodotte tali e quali, permettendo ai media di deresponsabilizzarsi (a discapito di una perdita di elementi contestuali). Si delinea la stessa tendenza anche per i contenuti forniti dalle agenzie di stampa. Determinate fonti (politici, sconosciuti) sono utilizzate per inquadrare un articolo, anche nelle prese di posizione, senza che ciò preoccupi più di tanto. Il peso delle fonti istituzionali in tutte le coperture giornalistiche è peraltro noto. Secondo Laurens, Darras, e Berthaut (2009, 55), «l’indagine sul campo mostra l’importanza dell’influenza delle fonti, principalmente di polizia e giustizia, sulla produzione quotidiana di notizie di cronaca». Questo fenomeno del contenuto istituzionale che deresponsabilizza il giornalista e il suo mezzo d’informazione esercita un influsso enorme, in particolare per quanto riguarda la polizia. Quest’ultima è d’altronde ben consapevole di queste criticità, come emerso durante i colloqui condotti. Ancora una volta, però, per risolvere il problema non sempre basta la semplice consapevolezza dei rischi.
Prevenire la discriminazione
In conclusione, diversi elementi permettono una riflessione rinnovata sulla prevenzione delle notizie potenzialmente discriminatorie. Come avevamo postulato immaginando il presente studio, gli effetti discriminanti non sono mono causali o mossi dalla volontà esplicita di una sola persona. Le nostre analisi evidenziano processi costituiti da molteplici tappe decisionali che coinvolgono numerosi attori, tutti potenzialmente in grado di influenzare la carica discriminatoria del prodotto finale: dalla fonte al servizio di traduzione dell’agenzia di stampa, dalla conferenza di redazione all’editing finale, alla rititolazione o alla moderazione dei commenti online, passando ovviamente dal lavoro di ricerca e redazione del giornalista. Le scelte e i fattori considerati si moltiplicano, cambiano, si accumulano, a volte si contraddicono e sono inoltre influenzati da fattori esterni (pressione della concorrenza o tempi di chiusura, irruzione dei fatti nell’attualità a causa del loro potenziale di trasgressione, sollecitazione della redazione da parte dei politici o dei lettori, contesto politico ecc.).
Le notizie analizzate mostrano perciò effetti potenzialmente discriminatori meno facilmente controllabili di una stigmatizzazione esplicita da parte di un solo individuo. Dietro una potenziale discriminazione vi sono piuttosto dimensioni implicite, «discrete» e multifattoriali (scelta di un tema e di un momento, scelta di una forma narrativa, omissione del chiarimento di una responsabilità enunciativa, inquadratura intuitiva/abituale o dettata da una fonte esterna). Spesso si tratta di elementi che la redazione non può controllare completamente. Come rileva Caliendo (2011, 81): «Sarebbe inesatto dire che il razzismo persiste a causa dei messaggi veicolati dai mezzi d’informazione e dalla cultura popolare. Ciononostante è innegabile che tali messaggi rafforzino e perpetuino il razzismo già presente, indipendentemente dal fatto che siano espressi esplicitamente o implicitamente.»
Le dimensioni di rafforzamento e risalto implicito menzionate nella citazione precedente sono particolarmente importanti. A esse aggiungiamo la dimensione collettiva della produzione di articoli potenzialmente discriminatori, firmati da un unico autore pur essendo alimentati da molteplici fonti. La stigmatizzazione di un individuo o di un gruppo di individui (i giornalisti), come unici responsabili della discriminazione di origine mediatica, mancherebbe il bersaglio e rischierebbe di erodere la «buona volontà non discriminatoria» evocata sopra.
Il nostro studio sottolinea con chiarezza come, per tutti i mezzi d’informazione, il rischio di essere accusati di discriminazione s’insinui continuamente nelle riflessioni dei giornalisti. Indipendentemente dal fatto che le scelte operate siano giuste o sbagliate, il margine di manovra tra il farsi accusare di «rafforzare i pregiudizi» o di «nascondere la verità in nome del politicamente corretto» è spesso esiguo. Ciò che è certo è che il potenziale discriminatorio è spesso multifattoriale, dipendendo da numerosi attori, in diverse fasi del processo di produzione (dall’idea iniziale alla moderazione dei commenti).
Il presente studio conferma che l’ipotesi di un’«agenda» discriminatoria da parte dei giornalisti debba essere scartata per lasciare spazio all’identificazione degli elementi strutturali che agiscono sulla produzione giornalistica (testuale o di altra natura) lungo l’intera catena di produzione, a monte della redazione (a livello delle fonti) come a valle, identificazione alla quale il presente studio si augura di aver spianato la strada.
Lo studio riportato in questo articolo è stato condotto in collaborazione con la Zürcher Hochschule für angewandte Wissenschaften ZHAW (prof. Guido Keel) e l’Università della Svizzera italiana/Istituto Media e Giornalismo (prof. Colin Porlezza).
Link allo studio: www.ekr.admin.ch > Pubblicazioni > Studi > 2022
Bibliografia:
Bhatia, Monish, Scott Poynting, et Waqas Tufail, Media, Crime and Racism, Springer, Cham, 2018.
Caliendo, Stephen M., « Race, Media & Pupular Culture », In : The Routledge companion to race and ethnicity eds. S. M. Caliendo et C. D. McIlwain, Routledge, London/New York, 2011.
van Dijk, Teun A., « Discourse and Racism: Some Conclusions of 30 Years of Research », In : Perspectives in Pragmatics, Philosophy & Psychology, Springer, Cham, 2011.
van Dijk, Teun A. 2. Racism and the Press, Routledge, London/New York, 2016.
Laurens, Sylvain, Eric Darras, & Jérôme Berthaut, « Pourquoi les faits-divers stigmatisent-ils ? L’hypothèse de la discrimination indirecte », In : Réseaux, La Découverte, Paris, 2009.
Maneri, Marcello, et Jessika Ter Wal. « The Criminalisation of Ethnic Groups: An Issue for Media Analysis », In : Forum: Qualitative Social Research, 6(3), Berlin, 2005.
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