Come migliorare il giornalismo nella copertura della pandemia

22 Luglio 2021 • Etica e Qualità, Più recenti • by

L’eccesso di copertura giornalistica sul coronavirus entra in una nuova fase con ogni mutazione del virus, con ogni nuovo “lockdown”, con ogni ulteriore disastro vaccinale. Il fatto che le redazioni, e pure gli utenti dei media, si siano abituati a che una parte sproporzionata delle notizie sia dedicata alla pandemia, ha sviluppato una sua propria dinamica: il newshole del coronavirus deve essere riempito fino all’orlo ogni giorno.

Newshole è come gli Anglosassoni chiamano il contenitore che deve essere riempito di notizie. Nei tempi pre-Internet era di solito molto limitato: nei giornali televisivi e radiofonici in ogni caso, ma anche nella stampa cartacea con i suoi spazi limitati dall’alto numero di annunci pubblicitari. Ma oggi, in tempi di siti d’informazione online e di social media, il contenitore è diventato un pozzo senza fondo. Questo è un altro motivo per cui i media ci bombardano di notizie sul coronavirus di continuo. Sfortunatamente, spesso lo fanno senza alcun senso né ragione.

Focalizzazione sbagliata sulle infezioni
A tutti coloro che non hanno ancora seguito Rolf Dobelli nella pratica dell’astinenza da notizie, semplicemente spegnendo il telegiornale e smettendo di leggere i giornali, dovrebbe sorgere la domanda: come si può migliorare la cronaca mediatica del coronavirus? Dopo tutti gli articoli che abbiamo letto negli ultimi mesi sui fallimenti di Stati, governi, burocrazie e mercato nel contesto della pandemia, questa domanda sembra giustificata, anche se ovviamente, come massmediologo e osservatore, è difficile reinventare la ruota.

Si viene rapidamente tacciati di essere saccente – è successo anche a me quando ho presentato i miei seguenti suggerimenti a un famoso giornalista tedesco e gli ho chiesto una valutazione critica. Tuttavia, è la ragion d’essere stessa di un giornalista ricercatore seguire criticamente la pratica. Uno «scienziato nella sua torre d’avorio» perde la sua credibilità, se non formula raccomandazioni concrete. Allora partiamo da quello che potrebbe fare una qualsiasi redazione: abbastanza assurdo, ma estremamente efficace in termini di allarmismo, è lo sguardo quotidiano sui tassi e le statistiche dei contagi.

Se si testa di più, il numero di casi aumenta, ovviamente, ma ciò che alla fine dovrebbe contare non sono i contagi registrati, bensì il numero di casi gravi. Se unicamente questi fossero stati diffusi dalla stampa, il dramma generato mediaticamente – che alla fine giustifica l’inasprimento dei lockdown e le restrizioni dei diritti fondamentali – sarebbe crollato da tempo. Non sarebbe allora più costantemente segnalata la necessità di un’azione politica, che tutti i tre attori della politica – gli agitatori, i sostenitori moderati di mentalità aperta e gli incorreggibili negazionisti del coronavirus – utilizzano per profilarsi.

Le giornaliste e i giornalisti dovrebbero quindi chiedersi, a ogni nuova notizia sul Coronavirus, se questa sia rilevante per il proprio pubblico. Se no – come è il caso, ad esempio, del numero di nuovi contagi, che di per sé non è molto significativo – l’informazione sul coronavirus si dovrebbe ridurre drasticamente. Se sì, il messaggio dovrebbe essere contestualizzato, ossia opportunamente inquadrato.

Soprattutto, i giornalisti devono imparare a gestire in modo appropriato la valutazione in tempo reale della risonanza mediatica e la richiesta di sempre più notizie sulla COVID-19: anche il grande interesse del pubblico per un argomento non giustifica il trascurare tutti gli altri argomenti importanti – che si tratti di proteste di massa in Bielorussia o in Russia, o della crisi climatica o della riforma dell’AVS in Svizzera o dell’aumento dell’età pensionabile per le donne.

Quando poi si debba assolutamente parlare dei danni causati dalla pandemia, si dovrebbe distinguere, almeno su base sperimentale, se questi possano essere imputati direttamente al virus o se siano stati causati dao lockdown o dalle altre misure di regolamentazione della pandemia. Ciò non funzionerà sempre, ma il virus non è senza dubbio la causa di tutte le norme insensate che governanti e burocrati – dal Consiglio federale fino alle autorità locali – si inventano come vessazioni assurde per proteggere e trattare da bambini i cittadini maturi.

Le redazioni dovrebbero essere più consapevoli delle pubbliche relazioni e della propaganda, specialmente quando si tratta di reportage sul Coronavirus. Dovrebbero sempre rivelare ed essere critiche nei confronti della fonte. Ciò includerebbe anche ammettere francamente i propri limiti di competenza nella cronaca internazionale – in un gigantesco paese censurato e governato da autorità autoritarie come la Cina, così come in piccoli Stati democratici vicini come la Svezia, dove le risorse sono spesso insufficienti per un appropriato apprezzamento del regime più liberale ivi in vigore.

Altoparlanti e ventilatori di aria calda
I principali media dovrebbero prestare maggiore attenzione a segnalazioni discutibili, superflue o errate. Sarebbe anche importante sviluppare una cultura dell’errore per correggere i propri. Sarebbe importante, inoltre, comunicare meno certezze e permettere più dubbi – anche e soprattutto quando si tratta di riscontri scientifici.

Quando i governanti o gli attivisti – dal cancelliere tedesco Angela Merkel al ministro degli Interni Alain Berset a Greta Thunberg – fanno riferimento alla «scienza», di solito cercano di strumentalizzare i ricercatori. I giornalisti dovrebbero vedere attraverso questo gioco e rimanere scettici anche quando hanno a che fare con scienziati e comunicatori scientifici capaci e consapevoli della loro missione.

L’alta arte del giornalismo consisterebbe nel valutare in modo appropriato le dichiarazioni degli scienziati. Il massmediologo di Mainz, Hans Mathias Kepplinger, suggerisce di prestare attenzione al fatto che le dichiarazioni dei ricercatori (nel nostro caso epidemiologi e virologi) contengano affermazioni sostanziali basate sulle proprie ricerche o su quelle di altri. O se contengano solo ammonimenti morali, valutazioni, incoraggiamenti o anche “banalità, come sa ogni lettore di giornali”. Kepplinger aggiunge: “alcuni altoparlanti verrebbero allora rapidamente riconosciuti per quello che sono: dei ventilatori di aria calda”.

In definitiva, è necessario un giornalismo più costruttivo, che riconosca adeguatamente i successi nella gestione del coronavirus. Questo è ancora scarso, altrimenti Tübingen, Böblingen e Rostock, ma anche paesi come Finlandia, Corea del Sud e Taiwan avrebbero ricevuto maggiore attenzione da parte dei media. Critiche all’informazione mediatica sul coronavirus ce ne sono sporadicamente, ma i media impediscono spesso che giungano al pubblico. Perfino giornalisti come Jakob Augstein, Claus Kleber o Gabor Steingart lo fanno solo al fine di contestare i pensatori discordanti dal pensiero dominante sul coronavirus, e in seguito argomentare con gli storici che c’erano anche altri pareri nei media.

Molti giornalisti potrebbero non pensarla in questo modo, tuttavia – insieme al loro allarmismo – stanno diffondendo incessantemente questa strana favola secondo cui il virus può essere controllato da “lockdown” ancora più rigidi e severi. Né i giornalisti né gli scienziati possono valutare realisticamente i danni collaterali che ne deriveranno. È quindi possibile che sia loro sfuggito come questi potrebbero rivelarsi molto più gravi dei disastri causati dal virus stesso?

Articolo pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino il 15/07/2021 e ripubblicato qui per gentile concessione. L’articolo è un estratto aggiornato dall’analisi dell’informazione sul Coronavirus, con cui l’autore ha contribuito al volume “Rapporto sulla situazione della qualità dell’informazione in Germania – analisi e suggerimenti per il dopo-Coronavirus”. Il libro sarà presto pubblicato da Innovatio-Verlag.

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