L’inizio dell’età della sfiducia nel giornalismo

28 Ottobre 2020 • Etica e Qualità, Giornalismi, In evidenza • by

Questa è una puntata di “Ellissi”, la newsletter settimanale di Valerio Bassan, dedicata al futuro dei media e alle nuove economie del digitale. È possibile iscriversi qui.

Janet Leslie Cooke aveva 25 anni quando lasciò la redazione di un piccolo giornale locale a Toledo, in Ohio, per approdare al Washington Post. Era il 1980. Il celebre quotidiano risplendeva ancora dell’aura post-Watergate e annoverava tra le sue fila i migliori reporter del paese, tra cui Bob Woodward e il leggendario editor Ben Bradlee.

Quello di Cooke era un profilo in ascesa: scriveva molto bene ed era una giovane giornalista senza paura, in grado di infilarsi nel degrado delle città americane per scovare e raccontare storie uniche. O almeno, così sembrava. Pochi mesi dopo il suo ingresso al Post, il giornale pubblicò il primo grande reportage di Cooke — “Jimmy’s World“, la storia di Jimmy, un bambino di 8 anni già alle prese con un’acuta dipendenza dall’eroina, e del suo patrigno-spacciatore.

Scritto con maestria e crudezza, il reportage ebbe così tanta eco nell’opinione pubblica della capitale da spingere le autorità – il sindaco Marion Barry in testa – a rintracciare Jimmy, nel tentativo di ‘salvarlo’. Jimmy, però, non fu mai trovato. Per un semplice motivo: Jimmy non era mai esistito. Questo però si scoprì soltanto un anno dopo, quando il Post ricevette una lettera: al reportage di Cooke era stato assegnato il Pulitzer, il primo di sempre a una donna di colore. Per alcuni attimi, sembrò un momento storico.

Sotto i riflettori di quella rinnovata attenzione, però, la storia cominciò a mostrare le sue crepe. In poche ore, l’intero castello costruito dalla giornalista crollò: Cooke ammise di essersi inventata tutto, rivelò che “il mondo di Jimmy” non esisteva, che perfino i suoi titoli di studio erano falsi. Alla fine della giornata, la giornalista si dimise e riconsegnò il Pulitzer.

Fu quello il momento in cui – secondo la Columbia Journalism Review – il giornalismo “cambiò”. Come si legge in un bellissimo articolo intitolato The fabulist who changed journalism, lo scandalo legato a Jimmy’s World “spaccò le fondamenta della credibilità che la stampa si era costruita a partire dalla seconda guerra mondiale”.  Quell’episodio creò, dunque, un prima e un poi: dopo anni in cui si era consolidato come un’istituzione in grado di proteggere i cittadini, smascherare guerre ingiuste e governi corrotti, il giornalismo era improvvisamente “caduto in disgrazia”.

L’inizio della sfiducia
Io e te, nel mondo di Jimmy, non siamo mai entrati veramente — anche perché quel bambino non esisteva. Tutti noi viviamo però, ancora oggi, nel mondo che Jimmy (e quel Pulitzer assegnato a un falso) hanno per primi contribuito a creare: un mondo in cui la fiducia dei lettori nei mezzi di informazione è ai minimi storici.

Quello della mancanza di trust nei media è un trend globale, che tocca dagli Stati Uniti alla Francia, dal Brasile all’Inghilterra (giusto per capire di che parliamo: il 50% degli adulti britannici considererebbe i giornali e le televisioni “una forza del male”). L’Italia, ma già lo sai, non fa eccezione; secondo il Reuters Institute di Oxford, solo il 29% degli italiani si fida delle notizie diffuse da giornali e tv.

È un problema endemico di questo periodo storico, e che non si limita al giornalismo, ma travolge tutte le istituzioni: tra promesse disattese, inefficienze e scandali, tutti i rappresentanti delle autorità politiche e giuridiche sono imputati in un grande processo popolare, che viaggia oltreconfine e che pare inarrestabile.Attenzione, però: in questo “mondo di Jimmy” non siamo diventati tutti iperscettici — o almeno, non siamo iperscettici tout court.

Pensaci: oggi ci fidiamo di servizi un tempo impensabili. Ci fidiamo di Airbnb, e della persona sconosciuta che ci ospiterà nel suo appartamento. Ci fidiamo di Uber, e della persona sconosciuta che ci guiderà fino a casa stanotte. Ci fidiamo di Apple, e delle app nel suo Store: app che difficilmente scaricheremmo se le trovassimo online su un sito sconosciuto.

Il ruolo di gatekeeping (filtraggio e controllo) effettuato da queste piattaforme ci fa sentire al sicuro, ci mette a nostro agio. Ci consente di affidarci a quell’host, a quel driver o a quel developer senza ansie o timori. Perché, allora, nei media e nel giornalismo, il gatekeeping ci causa l’effetto contrario, iniettandoci sospetti e fomentando la nostra sfiducia? All’origine del problema non ci sono solo reportage fabbricati ad arte per fare carriera, o i controlli omessi dai caporedattori distratti.

Jerry Seinfeld non mi ha mai fatto particolarmente ridere, ma una cosa giusta l’ha detta: It’s amazing that the amount of news that happens in the world every day always just exactly fits the newspaper. È quella percezione lì, che sento diffusa: che quando si tratta di media, dietro al cancello del gatekeeping ci sia sempre qualcosa da nascondere. Che l’interesse dei lettori non sia al centro dei pensieri di chi clicca il tasto “pubblica” o di chi dica “mandiamolo in onda”. Il sospetto che in pagina, insomma, non venga raccontata l’intera storia.

Anti-Trust
Se oggi i media si trovano a vivere nel mondo di Jimmy è anche per altre ragioni. In primis, per me, la colpa è dei modelli di business sbagliati su cui si è poggiato il mercato del giornalismo digitale. Da quando i media non sono più rivers of gold, come lì definì nel secolo scorso Rupert Murdoch, e il controllo economico dell’advertising si è spostato nelle tasche della Silicon Valley, i mezzi di informazione hanno dovuto competere per fette sempre più esigue di entrate pubblicitarie.

La corsa alle prossime mille impression ha spinto i media a produrre sempre più contenuti e usare tecniche sempre più losche — nel tentativo di restare aggrappati alla prima pagina di Google o di tenere alta l’interaction rate della propria pagina Facebook. Una danza macabra che ha spinto le testate a sacrificare la fiducia in cambio di un po’ di attenzione (passiva, per giunta). Una scorciatoia: quanto è più facile cercare click, anziché trust? Eccoti un esempio freschissimo.

Come ha scritto Alberto Puliafito su Slow News, “il giornalismo, vittima dell’ansia degli spazi da riempire, deve dire cose di continuo, deve dire cose che di solito hanno a che fare con la quotidianità, ma, soprattutto, deve dire cose che facciano vendere. A questo si somma poi che, nel tempo, il giornalismo generalista si è auto-assegnato tutta una serie di compiti educativi e, in qualche modo, moralizzatori”.

E il problema ‘economico’ del collasso della fiducia ha ricadute più ampie: il gatekeeping operato dai giornali non è più percepito come un filtro in grado di aiutarci a comprendere il mondo, ma come un filtro di convenienza, costruito per proteggere gli interessi della proprietà o di un inserzionista.

I lettori, che non sono stupidi, si sono resi conto che i numerosi conflitti di interesse dettati dai modelli di business delle testate vengono gestiti a discapito dell’unico interesse che il giornalismo dovrebbe preoccuparsi di difendere, ovvero quello dei cittadini. La fiducia sembra essere diventata un prodotto premium: un costoso optional, un lusso che pochi si possono permettere.

Ricostruire un modello
Ma non tutto è perduto. Avere toccato il fondo ci sta facendo bene. Vedo da più parti rinascere un giornalismo che cerca davvero di offrire un servizio ai lettori, e che da essi dipende, anche economicamente. Anche in Italia – seppure in ritardo – la transizione è cominciata.

Detto questo, io non credo che la strada sarà breve. E non credo, soprattutto, che sarà possibile ricostruire la fiducia nei media nella loro interezza. L’ecosistema dell’informazione sta andando verso una frammentazione sempre maggiore, costituita da micronicchie e da audience verticali. Ognuno di questi pubblici ha le sue specifiche esigenze in fatto di trust.

L’atomizzazione delle voci e dei canali è uno dei fattori: è più credibile il lavoro quotidiano di una testata generalista, o quello di una giornalista specializzata che sviluppa un rapporto intimo e diretto con la propria community sui social? Oggi, ogni testata (e reporter) deve sforzarsi di creare un set di valori condiviso con il proprio pubblico, micro o macro che sia.

Non è detto che questo set di valori sia uguale per tutti. Anzi, te lo dico: non lo è. Posto che siamo tutti d’accordo su quale sia il core product – il buon giornalismo – bisogna costruirci attorno una struttura trasparente, meglio se di piccole dimensioni e ‘porosa’. La fiducia infatti è una transazione, uno scambio.

Si rafforza nel suo essere tale: io lettore esigo chiarezza, onestà, credibilità, verifica. In cambio offro fiducia, partecipazione, attenzione (in questo caso, attiva). E, magari, soldi. La domanda che ti faccio, alla fine, è questa: perché ti fidi di qualcuno o di qualcosa? La mia risposta è questa, e la rubo a Seth Godin:

“Ci fidiamo di chi c’è quando non è scontato esserci, di chi dice la verità quando è più facile mentire, di chi mantiene una promessa quando potrebbe farla franca”

Un manifestino per il giornalismo. Nei modelli di domani, il livello di fiducia deve diventare il primo KPI della relazione tra giornalisti e lettori. Prima di accorgerci, magari troppo tardi, che il mondo di Jimmy sia tutto il mondo che ci rimane.

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