Sul visual journalism

3 Luglio 2015 • Giornalismi, Più recenti • by

http://repubblicapopolaredibolzano.it/

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Secondo un recente studio del Pew Research Center, il 30% degli americani adulti utilizza Facebook come prima fonte di informazione. Non a caso alcune tra le maggiori testate giornalistiche Usa (New York Times, National Geographic, BuzzFeed, Nbc, The Atlantic) hanno stretto di recente una partnership con il social network per dividere i ricavi della lettura di news direttamente sulla piattaforma social. Nel momento in cui le news digitali assumono sempre più spesso le caratteristiche dell’intrattenimento e non più dell’informazione, si apre un nuovo scenario che Clay A. Johson ha ben spiegato nel suo libro Information Diet, testo in cui la produzione attuale di informazioni di bassa qualità viene paragonata al junk-food: contenuti invitanti, ma dallo scarso valore nutritivo.

Secondo questo approccio, serve quindi stabilire una dieta, ri-educare la nostra mente, nutrendola di contenuti magari meno appetitosi ma che siano davvero nutrienti, basati su informazioni bilanciate che portino alla ribalta la complessità del fenomeno trattato, anziché la sua “ghiotta” semplificazione. Proprio da queste basi parte la mia ricerca sul visual journalism, un lavoro a cavallo tra data journalism e visual storytelling, in cui cerco di mettere a frutto tutti gli strumenti di cui sono in possesso per informare un pubblico più ampio su tematiche complesse, in maniera visiva e coinvolgente, affinché i lettori siano stimolati nella lettura. Parlo di divulgazione, ma non solo.

Quello a cui ambisco è stimolare il dubbio nei lettori, mostrare lo scollamento tra la realtà raccontata da alcuni mezzi di informazione e quella di tutti i giorni, ridimensionare cliché spesso alimentati dai media stessi, aprire un dibattito pubblico, riflettere su quanto una certa informazione odierna sia spesso approssimativa ed eccessivamente semplificata e su quanto vada soppesata, piuttosto che digerita indistintamente. Esattamente quello che Clay A. Johnson definisce come junk information.

Questo è quanto ho cercato di realizzare attraverso il mio primo progetto, La Repubblica Popolare di Bolzano, nato dalla necessità di mostrare a una parte della popolazione locale come a Bolzano non vi fosse un’invasione cinese ma al contrario, un’apparente integrazione. Tutto nasce un anno fa quando, insieme a Fabio Gobbato, il giornalista che ha collaborato al progetto, raccogliamo la testimonianza di un cuoco cinese interessato a sapere per quale ragione i Bolzanini fossero così diffidenti nei suoi confronti (e dei cinesi in generale) nonostante sia in Alto Adige da 15 anni, i suoi figli siano nati qui e abbia eletto Bolzano come la città in cui trascorrere la sua vita, contrariamente a molti cinesi che tradizionalmente, raggiunta l’età della pensione, tornano nel paese di origine.

Attività commerciali aperte a Bolzano da cinesi

Attività commerciali aperte a Bolzano da cinesi

Abbiamo deciso di lavorare assieme esplorando nuove forme per comunicare fenomeni sociali ed aprirne un dibattito. Ne è scaturito un gruppo interdisciplinare formato da due designer, un giornalista, un’antropologa culturale e un ingegnere del software al fine di integrare nella storia diversi punti di vista e strumenti, fornendo ai lettori diverse sfaccettature dello stesso fenomeno. Sono infatti profondamente convinto che l’attitudine interdisciplinare sia fondamentale, specialmente quando si trattano fenomeni sociali. Otto Neurath è stato forse il primo a praticare questo approccio, avvalendosi della collaborazione di statistici, esperti della materia e grafici, definendo infine il suo ruolo di social scientist come quello di “trasformatore”, figura in grado di adattare i dati, la storia e il linguaggio (visivo e verbale) alla cultura della comunità di riferimento. Nel nostro progetto il ruolo del designer è stato similare, connettendo e adattando continuamente il lavoro del giornalista e dell’antropologa alla struttura narrativa e visiva, tenendo sempre come riferimento l’aspetto informativo del lavoro.rest

Rispetto ad un processo “tradizionale”, in cui lo statistico “fornisce i dati”, il giornalista “scrive il pezzo” e il designer “mette in grafica”, abbiamo lavorato in un feedback continuo, in maniera organica, condividendo quasi tutte le parti del processo, anche quando non investivano direttamente tutti i membri del gruppo. La condivisione costante ha permesso di avere una visione olistica e armonica del fenomeno trattato, chiaramente con un alto investimento di tempo/lavoro. Abbiamo la fortuna di lavorare con tempi e modalità differenti da quelle delle redazioni o degli studi di design e questo ci ha permesso di operare cercando di tenere la qualità come principale valore da perseguire.

Tornando ai cinesi di Bolzano, quanti sono i cittadini cinesi a Bolzano? Pochi: appena 633 su 105713, troppo pochi per dipingere un’invasione. I dati, in questo caso, parlano chiaro. Ma allora perché una parte della popolazione locale si sente invasa? Per rispondere a questa domanda, siamo andati a verificare i dati sulle aperture di nuove attività commerciali gestite da cinesi negli ultimi 10 anni. Effettivamente,  a cavallo tra il 2008 ed il 2012 c’è stata un’impennata delle aperture, con un picco di 27 nel solo 2010, una crescita coincidente sia con una favorevole situazione economica, sia con la diversificazione delle attività commerciali operata dai cinesi, non più dediti solo alla ristorazione, ma ora proprietari anche di negozi di all’abbigliamento, di saloni di parrucchiere, sale da gioco e centri massaggi.

Per una piccola realtà come Bolzano, 27 aperture in un anno (circa 2 negozi ogni mese) possono essere tanti, ma andando a verificare i dati della camera di commercio, scopriamo che i ristoranti posseduti da cinesi sono solo l’11.8%, mentre i bar l’11.5 del totale. Il dato è comunque forte: lo 0.6% della popolazione possiede poco meno del 12% dei bar e dei ristoranti, siamo davanti a dati che confermano una spiccata capacità imprenditoriale, questo sì, ma che certamente non riflettono un’invasione.

Ci siamo quindi rbaresi immediatamente conto che per sfatare la percezione di un’invasione cinese non bastava più la sola evidenza dei dati. Per questa ragione abbiamo girato una serie di interviste qualitative che agiscono da specchio, mostrandoci quanto i pregiudizi in cui spesso involontariamente caschiamo siano inadeguati e infondati. Per il nostro progetto abbiamo intervistato otto cinesi, sia appartenenti alla comunità bolzanina che non, in modo da avere un ventaglio piuttosto eterogeneo di studi di caso. Le interviste sono forse la parte più interessante del nostro lavoro e ci mettono davanti all’evidenza di quando la nostra idea sui cinesi sia pre-costituita e condizionata da modelli obsoleti.

Se da un lato troviamo Yingjun, ad esempio, arrivata a 14 anni dalla Cina, che si iscrive alle scuole superiori e ottiene la maturità con 110 e lode in 5 anni (dichiarando inoltre che le scuole Italiane sono più accessibili e facili rispetto a quelle cinesi); dall’altro vediamo Honglin, una tra le prime cinesi di Bolzano che candidamente confessa che avrebbe preferito rimanere in Cina: i suoi coetanei ora hanno una pensione, auto e case di proprietà, mentre lei in Italia da più di 30 anni fa tuttora due lavori sperando un giorno di vedere la pensione.

Le interviste qualitative sono state effettuate dall’antropologa Sarah Trevisiol durante alcuni incontri preparatori seguiti poi da un’ora di intervista. A fine colloquio, abbiamo anche azzardato alcune domande “barbariche” chiedendo ai cinesi di sciogliere alcuni dei cliché più biechi che tuttora popolano i luoghi comuni. Gli intervistati si sono così prestati scherzosamente a questo gioco, confessando cose come non aver mai mangiato cani, o sciolto cadaveri nell’acido per riciclarne i documenti. Questa può apparire un’operazione superficiale, ma che ha un risvolto interessante: sono i cinesi stessi a sfatare alcuni dei più comuni pregiudizi su di loro, spesso con un sorriso, mettendoci davanti all’evidenza di quanto brutale sia il meccanismo del luogo comune e come spesso ingenuamente ci si caschi.

Un ultimo e non poco importante fattore che ha scatenato la percezione di un’invasione cinese sono stati alcuni quotidiani locali, che in più occasioni hanno parlato di Chinatown, massacro per i negozianti locali, megastore cinesi e avanzata cinese, con titoli – più che contenuti –  dall’alto tasso di stereotipizzazione. Il nostro progetto, risultato di in una combinazione di analisi quantitativa e qualitativa, ha smontato con successo la percezione dell’invasione, mettendo i cittadini cinesi sotto una nuova luce e aprendo un dibattito locale piuttosto interessante, al punto che anche i quotidiani più restii si sono lasciati andare e finalmente hanno titolato a grandi lettere che non c’era nessuna invasione. La Repubblica Popolare di Bolzano ha avuto rilievo anche a livello internazionale ed è stato ripreso da Der Spiegel e Courrier international e recentemente premiato ai Data Journalism Award 2015 nella categoria Data Visualisation of the Year (Small Newsroom), un buon segnale che spinge a continuare la nostra ricerca su nuove forme di giornalismo.

 

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