Scrivere un libro sul giornalismo in questa fase storica significa essere pronti a doverlo aggiornarne spesso. È questo il caso di “New Journalism“, il testo scritto da Marco Pratellesi giunto di recente alla terza edizione. Pratellesi, oggi alla divisione digitale del gruppo Espresso, ha vissuto in prima persona la transizione del giornalismo italiano verso il digitale, come responsabile del sito del Corriere della Sera e lavorando per il digitale in Condè Nast e per altre testate. Come testimoniano le tre edizioni del suo libro, quella transizione non si è davvero ancora conclusa ed è divenuta, invece, continua trasformazione e ricerca. Abbiamo intervistato Marco Pratellesi in occasione della sua partecipazione al ciclo di eventi “È il giornalismo, bellezza!” in corso all’Università della Svizzera italiana.
Cosa c’è davvero di nuovo nel “New Journalism” che dà il titolo al tuo libro?
“New Journalism è in realtà il titolo di un libro di Tom Wolfe che identificava un certo tipo di giornalismo nato negli Usa negli anni ’60 e ’70. Il punto centrale è che nel giornalismo viviamo in una condizione di innovazione permanente. Nel 2004, all’epoca della prima edizione, il titolo nasceva proprio dall’idea di una frattura: sulla scena del giornalismo “analogico” nato nel secolo scorso, a un certo punto negli anni ’90 irrompe il web e nasce il giornalismo digitale, a cominciare dal 1992 negli Usa e successivamente nel resto del mondo e anche in Italia, nel 1995. Allora, il libro nasceva come il racconto dell’esperienza di questo passaggio dalle tipografie al viaggio verso un mondo nuovo. Doveva essere il racconto di un passaggio ma ora rappresenta una condizione permanente, ribadita nelle edizioni del 2008 e 2013 con lo stesso titolo. Chi fa questo mestiere ha l’obbligo e il dovere di rinnovarsi costantemente e, per quanto ci si sforzi di aggiornarsi, si resta sempre un po’ indietro. Questo avviene per la velocità delle tecnologie e la capacità del pubblico di recepire questi cambiamenti. Tutto questo è forse più veloce di quanto non sia l’industria editoriale stessa. Il rinnovamento, insomma, è perenne. Per fortuna, direi, perché la possibilità di innovazione è sempre qualcosa di positivo”.
Il libro è alla sua terza edizione (2004-2008-2013) in meno di dieci anni. Rispetto al 2004, qual è stato l’aspetto più dirompente nel cambiare il giornalismo?
“Nel passaggio dall’edizione 2004 a quella del 2008 c’erano certamente dei cambiamenti. Fondamentalmente, però, si trattava sempre di giornalismo web 1.0 dove i ruoli tra lettori e giornalisti erano ancora chiaramente demarcati. Tra il 2008 e il 2013, invece, c’è stata una rivoluzione totale. I social media, ad esempio, che sei anni fa erano ancora piuttosto nella loro infanzia e poco conosciuti dal punto di vista giornalistico, hanno invece apportato cambiamenti importanti sul modo di lavorare, pensare e diffondere l’informazione. Negli ultimi anni hanno influito due aspetti fondamentali: da un lato la crisi dell’industria editoriale tradizionale e, dall’altro, la grande crescita dei media sociali. Sono stati certamente questi i due fenomeni più influenti”.
Da qualche tempo i maggiori siti di news italiani, Corriere della Sera e Repubblica.it hanno cambiato i loro siti, intervenendo molto dal punto di vista della grafica e della usability. Come giudichi questi cambiamenti?
“Ci sono dei trend ben definiti che sembrano andare nella direzione del mobile, anche se la fruizione da desktop rimane molto prevalente. Il mobile, però, è in crescita, e diventerà di sicuro una delle forme di fruizione più utilizzate dal pubblico. Di conseguenza, è chiaro che bisogna iniziare a guardare verso l’adaptive e a siti che sappiano adattarsi e siano fruibili sia da computer che da tablet o smartphone in modo chiaro, con in testa un lettore molto smart. Di sicuro c’è questo sforzo, dopodiché ci sono scelte editoriali diverse. Repubblica sta ancora privilegiando la titolazione e il sommario, aspetti propri del racconto testuale della notizia. Il Corriere dal canto suo ha puntato invece sull’aspetto visuale della notizia. Si tratta di scelte editoriali tutte lecite. La differenza la fa, invece, la direzione che si vuole prendere”.
E poi c’è il grande successo del sito de L’Espresso dopo il suo recente restyling
“Non c’è un grande segreto. Si tratta di qualcosa di cui mi sono appassionato molto di recente e sono stato contento di poter applicare in pratica quando ho potuto mettere mano al sito de L’Espresso: il concetto di slow journalism. L’idea è quella di fare un giornalismo di stampo antico con strumenti nuovi, riscoprendo i valori dell’inchiesta, del taglio sulle notizie, dell’approfondimento. Sono aspetti che spesso non vengono in superficie nella fretta del giornalismo digitale. Si tratta di un giornalismo d’impostazione più slow, più curato. Ovviamente, non penso che questa forma di giornalismo possa avere un’audience vastissima, ma può raggiungere una nicchia interessata a questo genere di approccio. Più è impegnativo, più richiede tempo, quello deve essere l’obiettivo del buon giornalismo, anche a costo di fare meno ma con più qualità, scelta e selezione”.
Da diversi anni tieni un blog di media journalism, Media Blog. Pensi che in Italia esista una vera riflessione fatta dai media su loro stessi, sul loro ruolo e il loro futuro?
“Ora sì, perché la crisi negli ultimi anni ha imposto a tutti di ripensare i modelli di business e di sviluppo. Credo sia ormai appurato che non sarà possibile trovare un modello di business unico come quello che per 200 anni ha permesso lo sviluppo dell’editoria per come l’abbiamo conosciuta. Esisteranno diversi modelli di business, uno per ogni realtà dell’informazione e, probabilmente, una singola azienda a sua volta dovrà avere diversi modelli che, affiancati, possano produrre ricavi e soprattutto utili per investimenti e per crescere. Quindi, il dibattito c’è sicuramente anche da noi, dove – dal punto di vista dell’informazione e del digitale – siamo stati sempre un po’ conservatori rispetto ad altri paesi come gli Usa o il Regno Unito. Negli ultimi anni, invece, ci siamo messi a correre veloci e si vedono molti tentativi di innovare e mettersi in gioco. E si può essere ottimisti”.
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