Il crescente scetticismo nei confronti dell’Europa è forse una conseguenza della cronaca che i media fanno sulle istituzioni della Ue? Stando al nuovo volume di John Lloyd e Cristina Marconi, Reporting the EU. News, Media and the European Institutions, la riposta a questa domanda è un timido sì.
Da una parte, bisogna notare che le risorse assegnate agli inviati a Bruxelles e quindi anche la competenza di cronaca conseguente si stanno riducendo da anni. Invece di impiegare giornalisti a tempo pieno e in modo fisso, infatti, le testate giornalistiche fanno sempre più affidamento ai freelance. In questo modo, sono spesso le redazioni locali a dettare il passo della cronaca sull’Unione e sono di conseguenza i punti di vista nazionali ad avere la meglio, dal Sud Italia alla Grecia, fino al Regno Unito e ai paesi scandinavi senza particolari differenze.
D’altra parte, sembrerebbe che i giornalisti rimasti stabilmente a Bruxelles siano diventati complessivamente più critici nel corso degli anni e anche avere un atteggiamento pro-Europa non implica più che gli inviati condividano automaticamente i punti di vista della Commissione europea. Le prime generazioni di corrispondenti, con l’eccezione dei britannici, erano composte per lo più da europeisti appassionati, che si vedevano come “parte del progetto” piuttosto che osservatori critici. Questo spirito di base di sentirsi “dall parte giusta della storia” dopo le due guerre mondiali sarebbe andato progressivamente perso presso gli attuali inviati dalle istituzioni della Ue.
Lloyd è Senior Research Fellow al Reuters Institute for the Study of Journalism di Oxford, mentre Marconi è una giornalista freelance italiana che ha lavorato come inviata a Bruxelles prima di trasferirsi in Inghilterra. Insieme hanno intervistato 33 giornalisti operanti nella capitale belga con tanto di nome e cognome, così come diversi addetti stampa dell’Ue rimasti invece anonimi, per ottenere maggiori informazioni riguardo ai cambiamenti della cronaca sull’Unione.
Ciò che gli autori hanno potuto riscontrare potrebbe almeno in parte disilludere: la struttura dell’Ue e il suo funzionamento ostacolano i giornalisti nel rendere la politica europea interessante a un pubblico più ampio. I processi di lavoro, specialmente nella Commissione europea, sarebbero “lenti, complessi e difficili da comprendere per degli esterni”, e, soprattutto, la possibilità di creare immagini che non suscitino noia sarebbe sostanzialmente nulla per la televisione.
Semplicemente, mancherebbero i “combattimenti tra gladiatori”, che rendono invece emozionante la politica delle arene nazionali. Solamente i media populisti, a cui gli autori associano soprattutto la Bild in Germania e il Sun e il Daily Mail in Inghilterra, riuscirebbero a trarre profitto dalla situazione, ma il prezzo da pagare sarebbe l’adottamento di una posizione antagonistica nei confronti dell’Ue, con le imprecisioni e le distorsioni che ne conseguono. Questa, è una tesi che andrebbe rafforzata con l’ausilio di una content analysis. È probabile quindi che qui la Bild, nonostante tutte le sue tendenze a criticare duramente l’eccessiva burocrazia dell’Ue, sia stata messa nel medesimo fascio con le gazzette da sommossa britanniche in modo troppo affrettato.
Tra i punti forti del libro si possono contare i due capitoli che trattano della cronaca inerente alla crisi finanziaria e dell’Euro, dove si legge di come la crisi avrebbe fatto risalire rapidamente l’interesse del pubblico per le notizie da Bruxelles. Gli inviati sarebbero però velocemente giunti ai loro limiti professionali anche in questo caso, dato che soltanto una minoranza di loro dispone di una laurea in economia oppure di solide conoscenze di finanza. Inoltre, dato che i mercati reagivano molto aggressivamente ad ogni osservazione, la Commissione europea avrebbe a sua volta cercato di “controllare ossessivamente la comunicazione”.
Gli autori mostrano sentimenti misti anche in vista del futuro: le forze centrifughe sono aumentate in Europa e con i gruppi anti-europei in parlamento ci sarebbe per la prima volta un “potenziale per veri drammi e dibattiti sulle domande più fondamentali”, come quella se l’Ue abbia ancora una “legittimità a esistere”. In questo modo, spiegare decisioni politiche sostanziali prese dall’Unione diventerebbe ancora più difficile per i giornalisti. “Per un giornalismo che vuole chiedere conto ai potenti e agire nell’interesse pubblico”, questo “farebbe poca differenza”. Per i media, che vogliono ottenere l’interesse del pubblico per l’Europa, la nuova costellazione conflittuale sarebbe invece un “grande passo avanti”.
John Lloyd/Cristina Marconi: Reporting the EU. News, Media and the European Institutions, Reuters Institute for the Study of Journalism, London/New York: I.B. Tauris
Articolo pubbliato originariamente sulla Neue Zürcher Zeitung il 10/03/2015. Articolo tradotto dall’originale tedesco da Georgia Ertz
Photo credits: Vincent Brassinne / Flickr CC
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