Media in Turchia: laboratorio di censura e controllo

29 Luglio 2020 • In evidenza, Libertà di stampa • by

Pixabay / Public Domain

Articolo pubblicato in collaborazione con l’Osservatorio Balcani Caucaso

A quattro anni dal tentato colpo di stato del 15-16 luglio 2016, lo spazio per il pluralismo dei media in Turchia è sempre più risicato. Nuove leggi già in vigore o in attesa di diventarlo indicano la volontà di tracciare confini ancora più ristretti per le poche testate indipendenti, mentre a dominare la scena sono i numerosi media pro-governativi. L’intero panorama dei media tradizionali, dalla tv alla carta stampata passando per la radio, è sottoposto al controllo più o meno diretto del governo turco: basti dire che dopo il tentato colpo di stato del 2016, 170 testate giornalistiche (quotidiani, televisioni, agenzie di stampa e siti online di informazione, considerati per vari motivi sovversivi) sono state chiuse o commissariate dal governo, aggravando la già alta concentrazione nella proprietà dei media turchi.

Sul fronte dei media mainstream una svolta fondamentale nel sistema di proprietà è stata la vendita, nel 2018, del gruppo Doğan a Erdoğan Demirören, businessman titolare del gruppo che ne porta il nome e noto per le posizioni pro-governative. Il trasferimento di proprietà ha incluso alcuni dei media più seguiti del paese, come la rete televisiva Cnn Türk e il quotidiano Hürriyet e l’agenzia di stampa Dha, ma influenzato negativamente anche la circolazione delle piccole testate indipendenti a livello nazionale.

Secondo il rapporto Turkey – Media Ownership Monitor, attualmente il 71% circa dei media del paese appartiene a 4 società vicine al governo: Turkuvaz/Kalyon, Doğuş e Ciner, oltre alla già citata Demirören. Questi ultimi, assieme ai gruppi Albayrak e İhlas, sono proprietari delle 40 testate più diffuse in Turchia e hanno investimenti in diversi altri settori, dall’edilizia all’estrazione mineraria e petrolifera, dalla finanza al turismo e alle telecomunicazioni. La Fox TV turca, appartenente alla Walt Disney Company, è l’unica tra le 10 reti televisive principali a restare fuori da questo sistema. Secondo il Digital News Report (2020), la rete è la più seguita per i programmi di informazione, oltre a essere ritenuta la più affidabile. Il dato è indicativo della richiesta di notizie alternative, dal momento che la popolazione del paese si informa per oltre il 70% dalla televisione. Questa richiesta traspare anche dal frequente utilizzo dei media online – inclusi i social media – che in contesto urbano supera l’80%, secondo ancora il Digital News Report, anche se solo il 55% degli utenti si fida dell’informazione che riceve.

Criminalizzare il giornalismo
La Turchia è attualmente la più grande prigione per giornalisti al mondo, con oltre 80 operatori dei media in stato di detenzione. Secondo l’International Press Institute, nel 73% dei casi le prove utilizzate per procedere contro di loro sono i prodotti del loro lavoro: per via dei loro articoli, notiziari e reportage, i giornalisti, per buona parte afferenti ai media pro-curdi, sono accusati di offese contro il presidente e la nazione, di mettere in pericolo la sicurezza nazionale e, negli ultimi anni più che mai, di fare propaganda, collaborare o appartenere ad organizzazioni terroristiche.

Censura e autocensura sono all’ordine del giorno nel paese, incluso il sud-est a maggioranza curda. Come ci spiega la giornalista Hatice Kamer, che lavora da Diyarbakır, il fallimento del processo di pace con i gruppi armati curdi nell’agosto 2015, e il periodo di scontri che è seguito hanno portato le persone a chiudersi in se stesse. “Precedentemente, quando il potere della polizia non era ancora così esteso, la gente non aveva timore ad esprimere il proprio dissenso o la rabbia. Dopo il tentato golpe, i decreti, i licenziamenti e la schedatura delle persone è diventato quasi impossibile per un/una giornalista lavorare sul campo, perché si è creato un senso di insicurezza tale che le persone hanno smesso di rilasciare dichiarazioni”, dice Kamer.

Secondo un recente studio, la Turchia è passata da una repressione del giornalismo pre-colpo di stato (2013–2016) ad una oppressione istituzionalizzata del giornalismo (2016–2018). Mentre la prima era caratterizzata da “attacchi non sistematici verso il giornalismo […] che conducevano a un clima di paura composto da una inevitabile autocensura […] il secondo si basa su riforme costituzionali e sull’uso del diritto per compromettere sistematicamente l’istituzione civile giornalistica”. In particolare, “è sistematica […] l’inerzia legale che segue ai tentativi di appello dei giornalisti o delle organizzazioni giornalistiche contro le violazioni e le violenze perpetrate da attori supportati dallo stato”.

La recente pandemia sembra essere stata l’ennesima occasione di criminalizzazione del pensiero: come spiega un recente report di Amnesty, le critiche alla gestione dell’emergenza sanitaria sono state seguite da accuse punibili con la detenzione tra i due e i quattro anni carcere. “Se la notizia che viene fornita dal giornalista non combacia nei dati e nelle dichiarazioni con quelle fornite dalle autorità, può essere causa di complicazioni”, afferma Kamer. Nel solo mese di marzo 2020, 12 giornalisti sono stati arrestati per aver istigato “alla disobbedienza delle leggi” e “all’odio”, mentre molti medici sono stati accusati di diffondere notizie false e “spargere panico nella popolazione”. L’approccio delle autorità turche ha trovato conferma a metà aprile 2020 quando, per diminuire la possibilità di contagio da Covid, un pacchetto di riforme ha scarcerato 90mila persone dalle prigioni turche, escludendo giornalisti, attivisti e altri soggetti accusati di reati politici.

Come avviene in molte altre circostanze, anche in tema di emergenza sanitaria i “grandi media del paese riproducono accuratamente la narrativa presidenziale […] con una lunga sequenza di notizie rassicuranti […] Dramma e catastrofismo sono invece la cifra dominante nelle notizie provenienti dall’estero. Continui aggiornamenti sottolineano, con toni quasi compiaciuti, la gravità degli altri (Salomoni, 2020). Il controllo dei toni della narrazione giornalistica quando si parla di problemi del paese è pervasivo: “se c’è un aumento nel costo della benzina, i giornali mainstream non usano la parola aumento ma parlano di aggiornamento del prezzo del carburante”, ci dice il giornalista Bülent Mumay.

Le novità del sistema presidenziale e altri metodi di controllo
Il sistema presidenziale introdotto nel luglio 2018, durante lo stato d’emergenza dichiarato subito dopo il tentato golpe, ha determinato un aumento dei poteri del presidente della repubblica a discapito dell’assemblea legislativa e di altre istituzioni statali. Secondo Mumay, “il vero cambiamento è che ora qualsiasi istituzione pubblica è stata legalmente collegata alla presidenza”. Questo significa, ad esempio, che anche le tessere dei giornalisti sono unicamente concesse dal Direttorato di Comunicazione della Presidenza. Nel sistema precedente le organizzazioni di categoria potevano ancora esercitare una certa influenza sulla decisione finale, come spiega Gökhan Durmuş, segretario del sindacato per i giornalisti Türk-İş. “Ora è l’autorità centrale a decidere chi è giornalista”, specifica Hatice Kamer, “lavorare quindi sul campo senza tessera diventa quasi impossibile”, aggiunge la reporter.

“Il dipartimento di comunicazione della Presidenza ha contatti diretti con il Consiglio Superiore per la Radio e la Televisione (RTÜK) e l’Ente per la Pubblicità nella Stampa (BİK)”, spiega Bülent Mumay. Quest’ultimo ente è legalmente tenuto a distribuire a tutti i quotidiani cartacei le inserzioni ufficiali, che rappresentano un’importante risorsa economica delle testate. Ma l’assegnazione è segnata da una certa arbitrarietà, come avvenuto nel caso dei quotidiani d’opposizione Evrensel e Birgün, le cui inserzioni sono state recentemente cancellate per aver “violato i principi etici della stampa”. Allo stesso modo RTÜK, che regola le trasmissioni radio-televisive, è un ente governativo spesso accusato di mancanza di indipendenza e di agire come censore, tramite multe e confische. L’ente può anche decidere di sospendere le trasmissioni dei canali, se li ritiene offensivi, come recentemente accaduto per le reti Tele1 e Halk TV, oscurate per cinque giorni. Nell’eventualità di una seconda sospensione, i canali perderebbero la licenza di trasmissione.

Internet: via d’uscita o ulteriore bersaglio per la censura?
Nella cybersfera sono proliferati canali TV su YouTube, podcast e siti di informazione che cercano di offrire un racconto alternativo a quello ufficiale. Anche Internet, però, è divenuto bersaglio per la censura: in primis, attraverso la rimozione di contenuti e il blocco di pagine web, compresi interi siti, come nel caso di Wikipedia, che è stata inaccessibile in Turchia dall’aprile 2017 al gennaio 2020. Negli ultimi anni, inoltre, è stata aperta una “Unità di Monitoraggio dei Social Media” e il governo ha lanciato, nel 2016, un’app che permette ai cittadini di segnalare post considerabili propaganda terroristica. La Turchia si distingue inoltre per la frequenza con cui richiede a Facebook dati degli utenti, soprattutto nei confronti di chi ha procedimenti legali in corso.

Nel 79% dei casi, Facebook effettivamente fornisce i dati richiesti al governo turco: è difficile che piattaforme come Facebook e Twitter – che registrano tra i più alti tassi di iscritti al mondo in Turchia – ignorino completamente le pressioni delle autorità, rischiando di perdere un mercato così importante.

Per quanto riguarda radio e televisioni online, nel 2019 RTÜK ha emesso un regolamento per la trasmissione online di radio, televisioni e servizi on-demand, imponendo nuove regole di licenza. Il regolamento era operativo per servizi come Netflix, ma come ci spiega l’avvocato Veysel Ok della Media and Law Studies Association “nel 2020 ci sono stati emendamenti che hanno esteso gli obblighi anche a YouTube, imponendo come precondizione per la licenza di certificare di non aver avuto contatti con organizzazioni terroristiche. Ovviamente questo rende difficilissimo ottenere tale licenza per stazioni TV e radio curde”, e per altri – aggiungiamo noi – data la frequenza di accuse di terrorismo contro categorie e individui critici nei confronti del governo. Infine, il parlamento turco ha approvato il 29 luglio una legge che obbliga le società delle piattaforme social ad avere sedi e rappresentanti in Turchia, pena il blocco degli annunci pubblicitari e la restrizione della banda internet. Inoltre, i tribunali potranno d’ora in poi rimuovere i contenuti delle pagine web, e non solo bloccarne l’accesso.

Anche la strategia governativa online negli ultimi anni si è affinata, con la nascita di moltissimi account social pro-governativi, “troll” che attaccano e segnalano utenti di opposizione e che cercano di “sopraffare gli avversari con un eccesso di informazioni”. “Dopo che Erdoğan è diventato presidente, i troll agiscono come ‘agenti della cultura’, costruendo una nuova agenda conservatrice, scagliandosi contro movimenti, donne, persone LGBT…”, ci dice Erkan Saka, professore al Dipartimento di Comunicazione della Bilgi University di Istanbul. Nel giugno 2020, Twitter ha sospeso 7.340 account “falsi o compromessi, usati per amplificare narrative favorevoli al partito AKP del presidente Erdoğan”. La parabola dell’intervento statale online sembra quindi aver attraversato tutte e tre le “generazioni di controllo” di Internet, dal blocco integrale all’intervento indiretto nella produzione di contenuti, come descritte da Deibert and Rohozinski (2010). Nonostante questo panorama sconfortante, alcuni dei nostri intervistati si dicono ottimisti rispetto al ruolo dei media digitali come canali di informazione alternativi: “Possono essere censurati, ma si trova sempre una via d’uscita”, ci dice il giornalista Mumay.

Passato e futuro
È bene ricordare che il partito di Recep Tayyip Erdoğan, l’AKP, è al potere dal 2002, e che il sistema dei media turco non è mai stato scevro di polarizzazione e forte controllo da parte dello stato. Ad ogni modo, la giornalista Mehveş Evin ricorda che “fino a 5 anni fa, pubblicare qualcosa che fosse apertamente una forma di propaganda […] veniva considerato come qualcosa di estremamente disdicevole nella professione. Ora invece sembra essere accettato a tal punto che ci sorprendiamo quando abbiamo di fronte un buon esempio di giornalismo”. Inoltre, continua Evin, “il fatto di avere così tanti colleghi indagati, in prigione o in esilio, necessariamente crea un notevole impatto psicologico e ci auto-censuriamo. Di conseguenza la qualità del giornalismo ne risente di giorno in giorno: mi chiedo se giunti ad una certa soglia sia più possibile poter recuperare il mestiere”.

 

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