Eccessivo coinvolgimento emotivo, drammatizzazione degli eventi e accantonamento di alcune buone pratiche classiche del giornalismo: sono queste le possibili alterazioni più frequenti dei video a 360 gradi, clip della durata media tra 1 e 10 minuti che presentano una visione immersiva di ambienti o situazioni e che permettono una maggiore interazione dell’utente rispetto ai filmati tradizionali. È quanto emerge da una nuova ricerca sul tema pubblicata dalla ricercatrice Tanja Aitamurto (Stanford University) sul journal New Media & Society. Secondo lo studio, il formato tecnologico di questi contenuti causerebbe una descrizione poco meticolosa degli episodi narrati e, al contrario, potrebbe generare rappresentazioni alterate. L’analisi di Aitamurto rileva come gli elementi di truth-telling delle inchieste siano spesso accantonati dai reporter, favorendo invece messaggi più ideologici e personali. La ricercatrice avverte anche del potenziale e rischioso spostamento dei video a 360 gradi verso modalità comunicative più vicine alla pubblicità, alle pubbliche relazioni o alla propaganda.
Lo studio ha anche sottolineato due paradossi che caratterizzano i video immersivi: il primo si riflettere sulla libertà dello spettatore nello scegliere il proprio campo d’osservazione e nella possibilità di muoversi con autonomia al suo interno. Nella percezione dei giornalisti, questo si tradurrebbe in maggiore trasparenza, un elemento che contribuirebbe a una rappresentazione più accurata degli argomenti. La visione a 360 gradi implica però una perdita di controllo da parte dei reporter sulle rappresentazioni che i video di questo tipo mettono in scena. In questo modo ci si distanzierebbe dagli aspetti della realtà e si potrebbe aprire a una “rappresentazione meno accurata della storia”.
Fruendo questo tipo di contenuti, ogni utente ha di fatto la possibilità di scegliere il proprio campo visivo, componendo una narrativa unica e soggettiva della storia. Questo crea numerosi rischi etici, anche non voluti o considerati dagli stessi autori. Di conseguenza, per assicurarsi la trasmissione corretta del messaggio, diversi reporter sono soliti fornire indicazioni pratiche su come orientarsi negli spazi dei video, come movimenti grafici, animazioni, audio o persino bloccando la visione sferica in certi frangenti, limitando di fatto l’autonomia di chi fruisce il contenuto. Questi metodi, sebbene efficaci, comprometterebbero però la visione immersiva, la libertà del singolo e l’idea stessa dei video a 360 gradi come progetti fondati sulla trasparenza.
Il secondo paradosso si manifesta invece quando i giornalisti stessi compromettono i principi classici di oggettività tramite la post-produzione delle immagini, nel tentativo di rendere i loro servizi più completi ma soprattutto più coinvolgenti. Ciò dipende dall’utilizzo di CGI, computer-generated imagery – tecnologia spesso utilizzata in film o videogiochi per la creazione di effetti speciali, come personaggi o ambientazioni – che permettono di modificare facilmente i video in post-produzione. Se lo scopo è la proposta di un contenuto più obiettivo, l’effetto ottenuto è però opposto. Per realizzare ciò che i giornalisti considerano rappresentazioni più accurate e oggettive, essi sono disposti a manipolare i video senza indicare le alterazioni al pubblico e a violare il codice etico del giornalismo visivo. Inoltre i reporter, facendo valere i loro punti di vista, preferenze o soggettività, potrebbero intensificare anche un messaggio più ideologico.
Per lo studio Aitamurto si è avvalsa di interviste con un campione composto da 26 reporter e editor che hanno prodotto video a 360 gradi tra il 2016 e il 2017 per quotidiani come USA Today, Washington Post, New York Times e Guardian ed emittenti come BBC e Al Jazeera. I video, pubblicati poi sui rispettivi siti web o sui profili YouTube e Facebook delle testate, trattavano di questioni complesse, come la situazione nei campi profughi, le carestie in Africa, le catastrofi naturali, fino ad approfondimenti più lievi, come l’arte, lo sport o la pianificazione urbana. Per la ricercatrice l’obiettività, elemento normativo del giornalismo, sarebbe stata allentata nella sua variante immersiva: allo spettatore non si rivelerebbe più la realtà concreta del “come è”, ma piuttosto del “come dovrebbe” o “come potrebbe” essere, rendendo palese il punto di vista degli autori. I due paradossi descritti condurrebbero poi a problematiche in termini di rinegoziazione dei confini normativi del giornalismo visivo, il ripensamento della ricerca della verità e all’offerta emozionale delle tematiche proposte.
L’entusiasmo iniziale e l’investimento delle redazioni in questa tecnologia avevano come fine la crescita della loro offerta contenutistica e il rafforzamento del coinvolgimento degli utenti. Secondo la studiosa e i risultati del suo studio, i sentimenti e le emozioni sono diventati uno dei punti focali dell’attenzione delle aziende mediatiche, che cercano costantemente di catturare l’attenzione online tramite anche video che trattino di argomenti impegnativi, ma che siano anche caratterizzati da rilevanza, sentimenti e imprevedibilità. La ricercatrice di Stanford sottolinea comunque i tratti positivi dei video a 360 gradi. Questi contenuti rinforzano il senso di presenza del fruitore, presentano maggiori dati rispetto ai video tradizionali e incrementano il coinvolgimento con la storia. La facilità d’uso di questa tecnologia sta inoltre portando alcune redazioni a spaziare più facilmente tra news quotidiane ed inchieste, mantenendo stabili i costi e distaccandosi dalle alte prestazioni di altre tipologie di giornalismo immersivo, che invece impiegano tecnologie più complesse, come la realtà virtuale.
Secondo la studiosa, inoltre, i report visivi non potranno mai del tutto soddisfare le convenzioni e i confini normativi di stampo tradizionale. Questa sfida, iniziata con lo sviluppo delle nuove tecnologie, sta mettendo in discussione cosa possa essere definito preciso e obiettivo nei video a 360 gradi e sta definendo le pratiche più appropriate per la loro realizzazione. Ci potrebbe essere il potenziale per costruire migliori dimensioni di accuratezza e oggettività nel giornalismo, confrontandosi direttamente con le norme attuali. Sebbene Aitamurto abbia esplorato un settore emergente del giornalismo visivo, la metodologia della sua ricerca presenta comunque delle limitazioni. Gli intervistati, un gruppo misto di professionisti con esperienza dai 3 ai 20 anni, hanno prodotto in prevalenza contenuti per il mercato mediatico statunitense, non estendibile necessariamente ad realtà del mondo. Inoltre, il modello di giornalismo al quale si è fatto riferimento è di stampo anglosassone, ma è possibile che altri contesti geografici potrebbero presentare altre modalità di fare giornalismo.
Le normative alle quali poi gli intervistati si attengono sono quelle della National Press Photographer Association e dalla Society of Professional Journalists. Oltre che limitarsi agli Stati Uniti, esse offrono linee guida che non sono vincolanti e che non presentano valenza giuridica. Di conseguenza, i risultati non si possono generalizzare estendendoli a un campione di reporter più numerosi o diversificati per nazionalità, che a loro volta potrebbero seguire norme giornalistiche eterogenee o che, a causa di fattori culturali e politici dei rispettivi Paesi, siano limitati nella produzione di tali video.
Aitamurto, T. (2018). Normative paradoxes in 360° journalism: Contested accuracy and objectivity. New Media & Society. Disponibile da: https://doi.org/10.1177/1461444818785153
Tags:etica del giornalismo, fotogiornalismo, giornalismo immersivo, qualità del giornalismo, realtà aumentata, realtà virtuale