Fatti, fatti, fatti: di questo è fatto il giornalismo, nella pratica professionale. Ogni giornalista, però, vive dei momenti in cui i fatti, da soli, non sono d’aiuto. Dopotutto, il giornalismo ha a che vedere in primis con le persone e avere a che fare con esse richiede, prima di tutto, una cosa: intelligenza emotiva. Ogni giornalista ha vissuto un’esperienza in cui questa capacità è stata più importante del semplice riportare “i fatti”: nel tentativo di convincere un interlocutore esitante a rilasciare una dichiarazione, ad esempio, o trattando con persone imprevedibili che avrebbero potuto cambiare idea in ogni momento. Scrivere notizie non dipende esclusivamente dalla raccolta delle informazioni, ma anche dal modo in cui un giornalista percepisce, comprende e gestisce una situazione dal punto di vista emotivo. Parallelamente, anche gli studiosi di giornalismo che studiano le rinegoziazioni delle modalità attuali di dare conto delle notizie comprendono sempre più quanto le emozioni possano contribuire positivamente.
Per molti giornalisti occidentali e studiosi, emozioni ed empatia non hanno necessariamente rappresentato degli elementi positivi e produttivi nel riportare le notizie. Il sensazionalismo e le “emozioni da quattro soldi” hanno dominato a lungo lo scenario: nel migliore dei casi, ai giornalisti era concesso avere “naso per le notizie”, la possibilità di affidarsi all’istinto nel prendere decisioni giornalistiche, o chiedersi se in determinate circostanze fosse lecito mostrare compassione. Martin Bell, giornalista della Bbc durante la guerra nella ex-Jugoslavia negli anni ’90, ha adottato un approccio al giornalismo che facesse leva sui sentimenti per assumere una posizione morale a sostegno delle vittime di guerre e conflitti. Tuttavia, questo modus operandi non ha intaccato il modo tradizionale di fare giornalismo fino all’ultimo decennio, ed è rimasto per lo più marginale.
Lo studioso di giornalismo statunitense Michael Schudson ha affermato nel 2000, ad esempio, come il giornalismo dovesse essere “neutro, piuttosto che emotivo, nei toni”, mentre un altro caposaldo della ricerca sul giornalismo, il britannico Dennis McQuail, si è spesso speso per un giornalismo imparziale “che eviti i giudizi di valore, o l’impiego di parole o immagini emotive”. Gli esperti di giornalismo hanno insistito nel sottolineare l’oggettività e il distacco come concetti fondamentali nel giornalismo occidentale. A lungo, le emozioni sono appartenute piuttosto al mondo commerciale. Ma da un decennio, questo scenario è cambiato, e Schudson, ad esempio, ora promuove il concetto di “empatia sociale” come un modo più umano di comprendere “come persone molto diverse da noi vivono le lore vite”. Quindi forse è giunto il momento di domandarsi, da una prospettiva diversa e più generale, se emozioni ed empatia possano avere un ruolo positivo nel giornalismo e nella pratica del lavoro giornalistico.
Possiamo facilmente identificare quattro aspetti principali in cui le emozioni e l’empatia diventano essenziali. Questi combinano elementi della neurobiologia, del processo decisionale morale, della professionalità e del ruolo mutevole del giornalismo in una società che incoraggia una manifestazione più aperta delle emozioni. Prima di discutere le conseguenze che tutto questo potrebbe avere per il giornalismo in generale, esaminiamo più in dettaglio questi quattro aspetti.
In primo luogo, le emozioni fanno parte del nostro sistema di percezione biologico-cognitivo, e quindi plasmano il modo in cui vediamo il mondo. Comprendiamo il mondo in entrambi i modi, sia a livello cognitivo, che emotivo. I problemi li pensiamo e li “sentiamo”. Di conseguenza, il nostro modo di plasmare la realtà è caratterizzato da una sinergia di cognizioni, emozioni, percezioni e ricordi. Ad esempio, molti studiosi ed esperti hanno cercato di spiegare perché la Gran Bretagna abbia votato a favore della Brexit – tuttavia non è possibile trovare una risposta senza tener conto di “come si sentono gli elettori”, per citare il titolo di un libro di Stephen Coleman. In questo caso specifico, l’empatia importa particolarmente come un mezzo non verbale per comprendere lo stato mentale ed emotivo degli altri.
Questo è particolarmente rilevante, ad esempio, nel giornalismo indiano, che è di norma più incentrato sulle emozioni. Una giovane conduttrice del canale di notizie Headlines Today di India Today mi ha confidato, conversando privatamente, che i giornalisti che si occupano di argomenti di attualità devono essere “in grado di capire cosa sta passando la persona di cui parlano” altrimenti “come potrebbe uno spettatore capire le emozioni di quella persona?”. E l’empatia aiuta anche a convalidare le affermazioni – capire se qualcuno mente o dice la verità non è sempre facile, ed essere bravi a leggere le emozioni può essere d’aiuto.
In questo senso l’empatia diventa quello che, citando il sociologo francese Pierre Bourdieu, possiamo definire “capitale emotivo”. Ciò implica che i giornalisti che possiedono un maggior livello di capitale emotivo (da intendere positivamente come “intelligenza emotiva”) potranno avere un impatto più significativo sul giornalismo rispetto ai giornalisti che non ne possiedono. Un direttore di testata britannico mi ha esemplificato, in un conversazione privata, che dopo aver “bussato un centinaio di volte alla porta di una casa dove è morto qualcuno, se sei effettivamente sensibile e ti comporti come un altro essere umano, invece che un robot in cerca di una foto, allora è più probabile che tu la quella foto la ottenga”. Quindi, i giornalisti dotati di empatia e capitale emotivo potrebbero avere delle performance migliori nel favorire un comportamento collaborativo (da parte di altri esseri umani fonti di notizie), perché sono in grado di individuare forme più sottili di informazioni non verbale. In breve: l’empatia come risorsa lavorativa giornalistica influisce su decisioni professionali ed etiche molto più di quanto non si ritenesse già.
Tuttavia, il contributo dell’empatia e delle emozioni al giornalismo non si ferma alla neurobiologia. Un secondo ambito importante è il processo decisionale morale. I giornalisti non possono sottrarsi al fatto di essere capaci di esprimere un giudizio fondato sulle conseguenze o le prospettive per gli esseri umani in una data situazione. La ricercatrice Renee Jeffery, ripensando all’Illuminismo scozzese, ha scoperto che David Hume aveva già evidenziato l’importanza delle emozioni per le capacità di giudizio della mente umana. Pertanto, l’agire etico è motivato dalle emozioni e riflette un “senso innato di giusto e sbagliato”. Ad esempio, il sessismo e il razzismo di Trump non possono essere adeguatamente affrontati mantenendo un atteggiamento imparziale. In questo caso non ci sono propriamente due versioni di un’unica storia, e i principi classici del giornalismo si rivelano tendenzialmente disfunzionali. L’imparzialità perde la sua ragion d’essere quando si parla dei cambiamenti climatici, attribuendo lo stesso peso a climatologi e scettici. Qui, un giornalista che non mette in pratica la propria morale interna – dove, secondo Hume, le emozioni forniscono le linee guida per formulare i giudizi – diventa un’entità moralmente discutibile. Qui è anche dove l’intelligenza artificiale (e il giornalismo algoritmico) sinora fallisce: nonostante si tratti di una sequenza di decisioni logiche, le sue capacità di giudizio rimangono scarse.
Questo aspetto tocca anche la regolamentazione emotiva tra gli stessi giornalisti. Capire come le emozioni influenzi il proprio giudizio professionale è importante per offrire un giornalismo che trascenda la personale visione soggettiva. La psicologa Ziva Kunda ha mostrato come l’affetto interagisca con il ragionamento e la fede. Il “ragionamento motivato”, come lo ha chiamato lei, descrive come gli esseri umani (e quindi, potenzialmente, giornalisti) potrebbero aggrapparsi a false credenze nonostante ogni evidenza, al fine di ridurre scomode dissonanze cognitive. Se i giornalisti vengono lasciati a loro stessi per regolare il proprio assetto emotivo durante il lavoro, questo potrebbe influenzare la pubblicazione stessa delle notizie.
In terzo luogo, le emozioni contano, perché, soprattutto quando si tratta di condurre delle trasmissioni alla radio o alla televisione, si devono seguire precise regole sul come manifestare le emozioni. Ad esempio, lo stile più sobrio e “freddo” di BBC News at Ten si differenzia notevolmente dallo stile più marcato di alcuni canali di informazione indiani. Qui, i giornalisti si cimentano in un lavoro emotivo, simile a quello degli attori teatrali o delle hostess. Queste regole implicite segnano i confini non scritti della professione giornalistica in diversi contesti culturali, e una conoscenza approfondita di queste regole è essenziale per inserirsi e apparire “professionali”.
In quarto luogo, il passaggio a una società più “affettiva” sta cambiando radicalmente il ruolo del giornalismo. Quando il coinvolgimento del pubblico diventa di primaria importanza per ragioni commerciali, quando i leader populisti dirottano la sfera pubblica attraverso la loro capacità di sfruttare lo slancio di fondo delle emozioni collettive, il giornalismo di qualità deve trovare nuovi percorsi che vadano oltre la diffusione di informazioni puramente cognitive e modelli piramidali invertiti. Ma da dove partire e come comprendere le emozioni e l’empatia nel giornalismo in senso più produttivo?
Forse è davvero giunto il momento di riconoscere la componente emotiva del giornalismo. Riconoscerla significa però andare oltre il livello individuale. Questo cambiamento offre nuove sfide e nuove domande. La più importante è: possiamo noi, in quanto giornalisti, apprendere l’alfabetizzazione emotiva? Possiamo impararla sistematicamente? C’è un bisogno urgente di acquisire questo tipo di conoscenze per essere un “buon giornalista”? Tornando al tema dell’empatia, i ricercatori delle università olandesi di Groningen e Enschede stanno studiando come le caratteristiche dell’empatia possono venir applicate alla comunicazione professionale. L’empatia è un processo di comprensione basato sia sulle emozioni che sulle cognizioni, che si traducono a loro volta nel comportamento. I ricercatori suggeriscono una varietà di mezzi come il riconoscimento del linguaggio del corpo e degli spunti non verbali, l’auto-introspezione o lo sviluppo di una risposta appropriata alle informazioni emotive. Tutto questo è stato fin qui poco discusso negli studi sul giornalismo.
Anche se questa consapevolezza non è ancora entrata a far parte dei consueti discorsi giornalistici, un primo cambiamento è visibile nelle scuole di giornalismo di tutta Europa. L’Università di Bournemouth ne è esempio eminente. L’università, con sede nel Sud dell’Inghilterra, ha intrapreso per prima ciò che attualmente si avvicina di più alla formazione emotivo-empatica. Da sei-sette anni, l’università offre corsi di formazione a studenti universitari e post-laureati a Bournemouth e in tutto il Regno Unito. Ciò è strettamente legato alle strategie di prevenzione dei traumi proposte dal DART Center for Journalism and Trauma. L’università, ad esempio, offre brevi corsi di formazione per studenti di giornalismo su come trattare catastrofi o altri contesi traumatici. In un gioco di ruolo simulato, gli studenti del DART ricevono la breve descrizione di una catastrofe, poi si cimentano in un immaginario scenario post-uragano Katrina o in un attacco terroristico in uno stadio di calcio. Gli esercizi sono “abbastanza brevi, il gioco di ruolo in ogni caso dura solo 10-20 minuti in cui gli studenti imparano facendo”, spiega Stephen Jukes, responsabile del corso e docente di giornalismo dell’Università di Bournemouth.
Un altro progetto ha invece mandato degli studenti di giornalismo sul campo, nel Nepal post-terremoto e giovani reporter britannici, nepalesi e indiani hanno stabilito la loro base a Kathmandu per raccontare le conseguenze a lungo termine del terremoto del 2015. Gli organizzatori, i ricercatori Chindu Sreedharan ed Einar Thorsen, hanno potuto osservato come gli studenti di giornalismo stiano facendo un lavoro eccellente: la loro sensibilità nel parlare coi sopravvissuti si è sviluppata insieme alla capacità di rispondere alle loro esperienze emotive. Tutto ciò ha contribuito a contrastare le critiche comunemente espresse dai giornalisti locali sul “giornalismo paracadute” dei media internazionali, che non sempre tengono in considerazione i traumi personali della popolazione nepalese colpita. Gli studenti sono rimasti sul posto e hanno imparato che possono davvero dare alle vittime l’impressione di essere prese sul serio e di essere ascoltate dal mondo esterno. I giovani reporter hanno seguito i principi del “solution journalism”, dove il giornalismo serve a evidenziare o addirittura a risolvere problemi sociali.
Questi progetti che implicano un alto grado di alfabetizzazione emotiva rappresentano una sfida per gli studenti, ma anche un’esperienza entusiasmante. Saper intervistare le vittime di traumi e violenze – persone emarginate e vulnerabili – è una competenza fondamentale per l’etica giornalistica e gli standard della professione. Questi giovani reporter di Bournemouth sono consapevoli di quanto la loro sensibilità e consapevolezza emotiva personale siano allenate. “Si tratta soprattutto di alfabetizzazione emotiva”, spiega Stephen Jukes, il che apporta notevoli benefici agli studenti per quanto riguarda lo sviluppo dell’intelligenza emotiva mentre interagiscono con le persone fonti di notizie. Jukes, in quanto ex giornalista della Reuters, sa che “se non sei empatico, non capisci comunque la storia”.
Sebbene le idee innovative di Bournemouth si stiano lentamente diffondendo nei programmi universitari britannici, queste non hanno ancora trovato molta risonanza tra le istituzioni di formazione giornalistica affermate come la NCTJ e la BJTC. Ma Jukes resta ottimista: “una copertura giornalistica provvista di empatia è ancor più importante oggi per via di drastici cambiamenti tecnologici. Viviamo in un mondo pieno di immagini su Internet, e le condizioni geopolitiche sono caratterizzate da ondate di migranti e da terribili guerre civili”. Possiamo concludere che forse non saranno solo lo sviluppo dell’abilità di indagine e l’attualissimo data journalism a plasmare la prossima generazione di giornalisti, ma che la formazione in intelligenza emotiva e alfabetizzazione saranno parte integrante della comprensione del ruolo giornalistico individuale. Per le prossime generazioni di giornalisti e redattori, insegnare e riflettere sull’empatia, sull’intelligenza emotiva e forse anche sulla compassione deve diventare parte integrante del curriculum.
Articolo tradotto dall’originale tedesco da Claudia Aletti, ed è disponibile anche in francese. Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rispecchiano necessariamente quelle di tutto l’Ejo.
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