Il giornalismo dentro il conflitto: errori e preoccupazioni

24 Ottobre 2023 • Giornalismi, Media e Politica, Più recenti • by

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Nelle scorse settimane, relativamente ai massacri del 7 ottobre scorso in Medio Oriente, alcuni media hanno iniziato a parlare di un nuovo “11 settembre per Israele”, promuovendo nel loro racconto approcci bellicosi, ricostruzioni giornalistiche sbrigative fortemente emotive, trascurando il rigore nella narrazione e nella verifica dei fatti.

A tal proposito, per George Packer di The Atlantic, con l’inizio del “nuovo” 11 settembre causato dall’ orribile ondata di terrore promossa da Hamas, la cosa migliore che gli americani dovrebbero fare ora è innanzitutto aiutare il mondo politico a evitare i terribili sbagli commessi dagli Stati Uniti tra il 2001 e il 2004, dove anche i media hanno avuto una loro responsabilità nel supportare giornalisticamente alcune delle decisioni militari prese dai governi dell’epoca.

La rabbia e il dolore racchiusi nei giornali e le richieste di vendetta del pubblico statunitense provocarono una chiusura totale dello spazio pubblico mediatico nei confronti di qualsiasi dibattito su quella che sarebbe poi diventata la guerra ventennale in Afghanistan. E gran parte dei media mainstream hanno sostento la tesi dell’amministrazione Bush a favore dell’invasione dell’Iraq. Per non parlare del resto dei media globali, pronti a esultare per la sofferenza americana allora e per quella israeliana adesso. Il primo editoriale di Al Jazeera del 7 ottobre ha elogiato l’“umiliazione” di Israele senza soffermare l’attenzione sulla morte dei civili.

Dubbi e accuse

L’attuale situazione in Israele e nei territori occupati sta generando anche molte discussioni e riflessioni sul lavoro dei giornali, dei giornalisti e di chi diffonde informazioni sui social network. La strage avvenuta martedi scorso all’ospedale di Gaza ha messo in grosse difficoltà anche le testate internazionali più autorevoli. Molte di queste hanno immediatamente parlato di un attacco israeliano riferendo le accuse provenienti da fonti di Hamas e indicandole come tali. Una scelta piuttosto superficiale e pericolosa, considerando che molte di quelle notizie hanno avallato una versione dei fatti ancora da verificare e prodotto nel giro di pochi minuti delle violente reazioni accompagnate da attacchi e manifestazioni in diverse città, anche fuori da Israele.

Solo poche ore dopo molti di quei titoli sono stati rivisti e corretti con l’emergere di dubbi e ricostruzioni scettiche che hanno preso piedi all’interno del dibattito pubblico e politico internazionale.

Tra i maggiori “accusati” ritroviamo quotidiani come il New York Times, che con un articolo ha provato a difendersi raccontando le oggettive difficoltà di seguire quello che succede in Israele con pochi giornalisti sul campo e considerata la pericolosità della situazione.

Narrazioni sbilanciate

C’è un evidente problema di “presenza” dei media (anche) in questo conflitto.

Dove la ricerca di fonti e l’attività di verifica in Rete non sembra essere affatto sufficiente.

Il lavoro è infatti molto più complesso.

All’interno della Striscia di Gaza, come i cittadini comuni, anche i giornalisti devono occupare una buona parte della loro giornata nella ricerca di cibo, acqua, energia elettrica e di un riparo sicuro in caso di bombardamenti. A queste necessità si aggiunge quella di una connessione internet stabile per trasmettere foto, video, audio e testi alle redazioni.

Nessun giornalista internazionale può entrare al momento nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas a Israele.

Il governo israeliano ha immediatamente chiuso l’unico varco, quello di Erez, che era utilizzabile in passato dai giornalisti. Sono rimasti solo i giornalisti palestinesi a raccontare i bombardamenti israeliani, l’evacuazione del nord dell’area, l’emergenza umanitaria e in generale la complicatissima vita quotidiana di 2,3 milioni di persone che abitano nella Striscia. In alcune circostanze sono dipendenti fissi di grandi organizzazioni giornalistiche, come AP, BBC, Reuters e Al Jazeera, più spesso sono collaboratori dei media internazionali, che nel giornalismo anglosassone vengono definiti “stringer”. 

Secondo H.A. Hellyer, ricercatore dell’istituto londinese Royal United Services, vi sono schiere di giornalisti internazionali in Israele che possono raccontare ogni dettaglio di tutte le atrocità avvenute lì, ma non c’è nessuna copertura di una profondità simile dell’incredibile catastrofe umanitaria che sta avvenendo a Gaza. Sembra che l’assenza di giornalisti internazionali stia creando un certo sbilanciamento nel racconto delle sofferenze dei palestinesi, rispetto alla copertura di quelle dei civili israeliani.

Rispetto ai racconti mediali delle ultime crisi globali, la notizia del conflitto israelo-palestinese, di cui si sta occupando tutto il mondo del giornalismo in queste settimane è forse la madre di tutti i temi divisivi dell’ultimo secolo e sta generando un profondo odio, comportamenti incivili fuori misura e senza rispetto per i drammi reali in questione. E chi lavora nell’informazione è diventato vittima di pressioni e ricatti per dare spazio al “contraddittorio”, rispettare generiche “par condicio”, o semplicemente non trovarsi vittima di attacchi e screditamenti oltre il limite della civiltà.

Narrare dall’interno

Negli ambienti digitali sono già presenti una grande quantità di video e notizie provenienti dalle zone di guerra, ma l’ampia diffusione di notizie false e disinformazione rende queste fonti molto meno affidabili e la verifica di tutto il materiale presente online è un’operazione molto dispendiosa a livello di tempo e di lavoro.

A maggior ragione, dunque, la presenza di corrispondenti e collaboratori sul campo diviene fondamentale per i grandi media internazionali. “Narrare dall’interno” potrebbe favorire l’emergere di parti di realtà sociali del conflitto ancora sconosciute, ampliando cosi  l’area del notiziabile e  attingendo a un più ampio numero di fonti.

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