Social media: rivoluzionari in Maghreb, un divertissment in Italia

28 Febbraio 2011 • Digitale, Giornalismo sui Media • by

Le recenti rivolte nel Nord Africa che hanno coinvolto Tunisia, Egitto e Libia hanno sollevato un vivo dibattito sul ruolo giocato dai social media nell’organizzazione e nel sostegno delle proteste

Sia che si tenda a sopravvalutare il peso dei social network sia che, al contrario, si sostenga una posizione eccessivamente prudente nei loro confronti è evidente che Facebook e Twitter abbiano svolto una funzione cardine per la circolazione nei paesi coinvolti delle istanze rivoluzionarie e verso l’estero nella diffusione di notizie e immagini delle manifestazioni e della loro violenta repressione. Si è detto che i social media sono stati un veicolo che ha favorito i sommovimenti,  tuttavia definire Internet causa scaturente, se non addirittura la ragione per le quali i regimi tunisino ed egiziano siano crollati e quello libico sembri destinato a seguirli, significa avere una visione utopica e un po’ naif della questione. Seppur costituito da persone connesse, Internet rimane uno strumento che per quanto alimentato da dinamiche condivisive e network che si incontrano di per sé non può fare la rivoluzione.

I recenti fatti nordafricani hanno dimostrato però come la rete, se utilizzata da un tessuto sociale pronto e in grado di assorbire e far proprie le istanze che la network society struttura in contesti politici oppressivi, possa divenire uno strumento forte e dinamico nel  supportare movimenti politici pronti a scendere in piazza. La sua diffusione  non significa solo costanza di utilizzo e numero di utenti connessi. Essa si diffonde se è assorbita dalla società come struttura di dinamiche nuove, come sistema di aggregazione che fa della partecipazione online un contraltare dell’agire sociale.

La separazione tra rete e realtà o la rappresentazione di questa separazione a livello mediatico su media “mainstream” può diventare uno dei maggiori freni alle possibilità di sviluppo. Alessandro Gilioli si è recentemente interrogato sulle diverse iniziative di protesta nate in rete organizzate in Italia e sulla loro reale penetrazione nella coscienza collettiva, fatto comunque salvo il differente contesto politico italiano rispetto all’Egitto, alla Tunisia o alla Libia.

Fondamentale è notare come la rete, a dispetto della sua intrinseca velocità e immediatezza nell’avvicinare le persone a “opinioni e mondi diversi”, causi effetti a lunga durata. I suoi effetti, come l’esposizione a un universo esteso o la frequentazione della discussione libera e condivisa necessitano di “un tempo di sedimentazione e di crescita nelle coscienze” lungo, verificabile negli anni e non in archi di tempo più ristretti.

L’Italia è un paese in cui la rete non è diffusa capillarmente sia a livello infrastrutturale che di mentalità ed è anche un paese, contrariamente a quelli dell’area nordafricana, poco giovane e dalle dinamiche sociali e culturali lente

In più percepisce Internet come un universo separato dalla realtà fattuale dove Facebook e Twitter non sono parte dell’agire quotidiano ma un divertissment separato da relegare a un’alterità rispetto al lavoro, alla vita sociale, alla politica. I media tradizionali enfatizzano questa separazione: basti pensare alla frequenza con cui espressioni quali “il popolo di internet”, “il dibattito su Facebook”, “cosa dice la rete” siano frequenti nelle cronache giornalistiche e i contenuti provenienti dalla rete siano spesso visti come alieni e da considerarsi a margine rispetto al dibattito, come se gli utenti di internet non fossero le stesse persone che camminano per strada e vengono intervistati dai telegiornali.

Questa percezione, figlia di una non ancora diffusamente avvenuta consapevolezza del ruolo che i social media possono assumere, è da tener ben presente quando si analizzano i movimenti e le iniziative che dalle piazze del web si aprono alle piazze delle città italiane, insieme al fatto che la rete è ancora strumento per una ristretta avanguardia di utenti. La costellazione dell’attivismo online in Italia è ampia e di vario colore e molte delle iniziative recenti che hanno chiesto le dimissioni del premier Berlusconi sono sorte da firme e organizzazioni nate sui social media prima di aprirsi alla piazza.  La loro risposta, si pensi ad esempio alle recenti manifestazioni delle donne in molte citta italiane, è spesso enorme, ma questa non porta mai a una mobilitazione più ampia e condivisa, non porta a un attivismo prolungato.

A dominare è spesso la dimensione dell’evento singolo in grado di ottenere quanta più visibilità possibile, in un’unica occasione. Il che se certamente è positivo dal punto di vista della risonanza e dei numeri, non è efficace, se non replicato, per la diffusione delle istanze per le quali si scende in piazza in settori diversi della società. L’autoreferenzialità, in un paese dove gli internauti sono “una ristretta minoranza digitalizzata”, citando nuovamente Gilioli, è un rischio vivissimo.

Il processo di crescita della consapevolezza digitale è partito sicuramente negli ultimi anni anche in Italia e lo sviluppo velocissimo di Facebook (mentre Twitter ancora non decolla) ha certamente facilitato questa dinamica. Ma è l’Italia, insieme alle sue minoranze digitalizzate, un paese fortemente legato alle dinamiche del broadcasting, alla televisione e al framework dell’evento, replicato con il canonico “parteciperò” in risposta agli inviti ricevuti su Facebook.

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