Media in esilio: “l’ultimo bastione di tutte le libertà”

29 Luglio 2023 • Giornalismi, Più recenti, Ricerca sui media • by

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Molti di voi avranno sentito il nome di Mahsa Amin, la ragazza curda di 22 anni uccisa dalla polizia morale iraniana nel settembre 2022. In Iran il suo omicidio ha innescato le proteste di massa più partecipate dal 2014.

Avete sentito parlare, probabilmente, anche del genocidio degli uiguri, l’operazione sistematica con cui le autorità cinesi mirano a “sradicare il radicalismo musulmano” nello Xinjiang.

Forse vi siete anche imbattuti in una recente inchiesta giornalistica, che ha dimostrato come, dall’inizio del conflitto in Ucraina, almeno 47.000 soldati russi abbiano perso la vita, un numero quasi otto volte superiore alla cifra ufficiale diffusa dal governo russo.

Quello che probabilmente non sapete è che la testata che ha dato la notizia dell’uccisione di Mahsa Amini, IranWire, la radio che ha raccontato il genocidio degli uiguri in modo più accurato, Radio Free Asia, e quelle che hanno smontato la propaganda del Cremlino sulle vittime militari in Ucraina, Meduza e Mediazona, sono tutte testate in esilio.

Sono tra le quasi cento testate che ho censito in un progetto di ricerca sostenuto dal Media Journalism Research Centre che mira a mappare, classificare ed esaminare il fenomeno – ancora poco studiato- dei media in esilio. I media identificati provengono da 34 Paesi, e tra questi la Russia, con 15 media in esilio, è in cima alla lista dei Paesi di provenienza, seguita da Nicaragua (10), Iran e Turchia (8 ciascuno), Afghanistan, Bielorussia e Sudan (5 ciascuno).

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha costretto i pochi giornali indipendenti rimasti in Russia a lasciare il Paese, ha portato il fenomeno sotto i riflettori internazionali. Lo scorso giugno, Reporter senza frontiere ha pubblicato la prima mappa interattiva dedicata al giornalismo in esilio.

In equilibrio su una sottile corda geopolitica

Per i media che devono fuggire dal proprio paese, la scelta della destinazione è particolarmente cruciale. Alcune redazioni scelgono destinazioni geograficamente vicine al proprio Paese d’origine, ma sempre più testate optano per Paesi dove la libertà di stampa è più tutelata, a prescindere dalla distanza che li separa da casa. Questo spiega perché, nonostante non confinino con alcun Paese d’origine, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Francia e la Repubblica Ceca ospitano insieme quasi la metà dei media in esilio considerati.

Anche se il “fattore geopolitico” non viene quasi mai citato esplicitamente, è un elemento imprescindibile per comprendere appieno il perimetro in cui operano i media in esilio. Da loro ci si aspetta una particolare attenzione alle sensibilità e agli imperativi di politica estera dei Paesi ospitanti, che hanno spesso rapporti tesi con Paesi da cui sono scappati.

L’esperienza della russa TV Rain ha mostrato nitidamente quanto questo equilibrio possa rivelarsi delicato. Rifugiatasi inizialmente in Lettonia, l’emittente televisiva si è vista revocare la licenza di trasmissione dopo aver mandato in onda un reportage in cui il giornalista definiva l’esercito russo “il nostro esercito”. Troppo per autorità e opinione pubblica lettoni, per cui il mezzo secolo di occupazione sovietica resta una ferita ancora sanata.

Quando i panni sporchi non possono essere lavati in famiglia

Una delle funzioni principali dei media in esilio è quella di contribuire alla narrazione del proprio Paese d’origine all’estero, in particolare in Occidente, dove le notizie diffuse dai regimi non democratici tramite i canali ufficiali sono solitamente accolte con sospetto.

L’obiettivo principale di queste testate, tuttavia, rimane quello di raccontare ai propri connazionali i fatti che il regime preferirebbe tenere nascosti all’opinione pubblica nazionale.

La maggior parte dei media in esilio tende infatti a trattare argomenti politicamente sensibili, come violazioni dei diritti umani, proteste e corruzione. Stando ai dati che ho raccolto tramite un sondaggio condotto negli ultimi due mesi, però, solo la metà di essi si auto-definisce un giornale investigativo; molte di queste testate scrivono anche di questioni più leggere, come sport, cultura e tempo libero.

Un’altra caratteristica comune che emerge dal mio studio è che, al momento, la maggior parte dei media in esilio dipende economicamente da grant istituzionali. Solo pochi riescono a ricavare entrate da altre forme, come campagne di crowd-funding e pubblicità. Si tratta di un vulnus strutturale per questi media, poiché i grant tendono a essere sporadici e raramente consentono alle redazioni di pianificare il proprio lavoro sul lungo termine.

A fronte di alcune caratteristiche comuni, il panorama dei media in esilio resta però molto diversificato. Le testate che ho identificato finora non sono diverse solo per dimensioni, numero di dipendenti e capacità di produrre informazione accurata dall’estero, ma anche per le differenti condizioni in cui operano, sia nei paesi di provenienza che in quelli di approdo.

Ad esempio, poiché in Russia Internet è molto diffuso, molte testate russe in esilio hanno iniziato a sperimentare con tool che sfruttano l’intelligenza artificiale per aggirare i sofisticati metodi di censura applicati dalle autorità russe. Nella maggior parte dei Paesi africani, invece, i media in esilio tendono a fare affidamento su strumenti più tradizionali, come programmi radio, catene WhatsApp e social media. Non è un caso che, sui quasi cento media individuati, sei delle dieci emittenti che contengono il termine “radio” nel nome operino nell’Africa subsahariana.

Inoltre, mentre in alcuni Paesi questi media trovano subito ospitalità nelle redazioni locali, potendo continuare a lavorare in modo relativamente simile a come lo facevano prima di emigrare, in altri Paesi i dipendenti di questi giornali in esilio vengono trattati come rifugiati e devono quindi affidarsi a ONG e associazioni locali per trovare una sede, candidarsi a grant e registrarsi prima di poter ricominciare a lavorare.

Kit di sopravvivenza per i media in esilio: collaborazione, fiducia, attivismo

Quest’ultimo punto rimanda a uno dei tratti distintivi dell’esperienza dei media in esilio: la collaborazione.

Le difficoltà comportate dall’esperienza dell’esilio e le risorse – finanziarie, umane, professionali – limitate di cui queste redazioni dispongono spingono gran parte dei media in esilio ad allacciare partnership con testate locali e transnazionali che condividono i loro stessi ideali. Per media che spesso dispongono di pochi mezzi il “giornalismo collaborativo”, che implica la condivisione di risorse e competenze tra le varie redazioni, è più una necessità strategica che una scelta.

Il caso del Costa Rica è indicativo. A causa del generale deterioramento della libertà dei media in tutta l’America centrale, il Paese è diventato il faro della libertà di stampa nella regione. A luglio 2023, il Costa Rica ospita sette media in esilio, per lo più provenienti dal Nicaragua. Essendo l’America centrale una regione relativamente piccola (ha una superficie inferiore a quella della Francia) e quasi interamente ispanofona, nel Paese sta quindi emergendo un polo di giornalismo investigativo transnazionale, un’iniziativa capeggiata dai media che vi hanno trovato rifugio.

Una seconda forma di collaborazione fondamentale per i media in esilio è quella con le fonti interne al Paese: informatori, testimoni oculari e ‘whistleblower’ (Crete-Nishihata & Tsui 2021; Porlezza & Arafat 2022). Fonti preziose per qualsiasi tipo di inchiesta giornalistica, ma che diventano ancora più necessarie nel lavoro di media a cui è preclusa qualsiasi forma di accesso al Paese.

La fiducia è quindi un ingrediente fondamentale del lavoro svolto dei media in esilio. I giornalisti devono instaurare e coltivare relazioni di fiducia con le fonti in loco e, allo stesso tempo, approntare meccanismi rigorosi di verifica delle informazioni. In un contesto in cui l’autorevolezza di queste testate, nei Paesi d’origine, viene costantemente messa in discussione e delegittimata, trovare un equilibrio non è sempre facile.

Il fenomeno dei media in esilio rappresenta, inoltre, anche una sfida al modello tradizionale del giornalismo di matrice anglosassone, fondato sull’obiettività come principio cardine (O’Loughlin & Schafraad 2016; Sarıaslan 2020). In primis, perché descrivere l’operato di un regime che ha bollato l’autore del pezzo – o il media per cui lavora – come “agente straniero” e che spesso ne sorveglia e intimidisce parenti e conoscenti, rende essere obiettivi comprensibilmente molto complesso sul piano umano. In secundis, perché l’attacco alla libertà di stampa e gli abusi perpetrati dal regime possono essere così plateali e sistematici che anche solo il fatto stesso di raccontarli può diventare una forma di attivismo – o perlomeno così essere percepito dalle autorità.

Da fenomeno di nicchia al cuore dell’informazione globale: il futuro del giornalismo è dei media in esilio?

Un tema poco trattato dai lavori accademici pubblicati finora sul caso (Badran & Smets 2021; Cho 2011) è quello delle pratiche, ovvero le routine redazionali, una macrocategoria che include operazioni molto diverse tra loro, come i processi di verifica delle informazioni raccolte dalle fonti in loco e le tattiche per raggiungere i propri lettori di riferimento all’interno del Paese.

Comprendere meglio queste pratiche potrebbe rivelarsi utile non soltanto per gli addetti ai lavori, ma anche per tutta quella galassia di ONG, policymaker e istituzioni – UE, in primis – che si sono attivate per supportate questi media in esilio, il cui numero è cresciuto drammaticamente negli ultimi due decenni.

A fronte del declino generalizzato del diritto a informare a informarsi in un numero crescente di Paesi, non sembra peregrino ipotizzare che sempre più redazioni saranno costrette a trasferirsi all’estero per continuare a svolgere il proprio ruolo di ‘quarto potere’.

La qualità del lavoro di informazione che queste testate riusciranno a garantire sarà probabilmente determinante per resistere all’ondata di autocratizzazione che sta investendo tutte le regioni del globo (V-Dem 2023), e difendere le libertà democratiche dovunque vengano erose.

Nota: La citazione nel titolo è tratta dalla Reuters Memorial Lecture annuale che Carlos F. Chamorro, fondatore e direttore di Confidencial, ha tenuto a Oxford il 23 marzo 2023.

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