Un team sotto pressione, un progetto da sviluppare, poche regole e tanta creatività: si riassume così un hackaton di ambito giornalistico, un evento in cui più squadre multidisciplinari si sfidano per creare un software richiesto da una commissione – generalmente un’applicazione, un linguaggio di programmazione o un’interfaccia utente. Nell’impostazione più comune, a queste manifestazioni partecipano tra le 50 e 200 persone divise in squadre dai 4 ai 10 componenti dove lavorano fianco a fianco un reporter, un designer, uno specialista di dati, un civic hacker e spesso un cittadino particolarmente appassionato. I concorrenti devono saper equilibrare la competenza tecnica con l’inventiva, contribuendo ai progetti con il proprio bagaglio di competenze. Il talento del singolo si misura anche dall’abilità di fare squadra, dal comunicare efficacemente e dal rispettare il tempo massimo, che varia da poche ore fino a qualche giorno, a seconda dei casi.
Di questo fenomeno, che integra la sfera del digitale a quella di uno spazio fisico, ha scritto di recente Jan Lauren Boyles della Iowa State University in una nuova ricerca pubblicata dal journal accademico Journalism. Lo studio ha messo in luce la relazione che intercorre tra giornalismo, tecnologia e soprattutto i vari portatori di interesse, come governi locali o lo stesso pubblico, categorie spesso poco considerate in questi eventi. Boyles ha mostrato come questa collaborazione sia eminentemente positiva e incline a facilitare il dibattito civile attorno al mondo hacker e all’innovazione digitale nelle redazioni. Lo studio ha anche indicato come il primo obiettivo degli hackaton giornalistici sia la creazione di un prototipo per le industrie mediatiche, che possa ottimizzare la produzione del contenuto o facilitare la trasmissione di notizie: questi hackathon sono diventati uno dei laboratori di sperimentazione giornalistica più interessanti. Di norma, al termine della competizione il risultato può essere un’app per notizie oppure un software che migliori la user experience dei lettori. Il secondo scopo di queste manifestazioni sarebbe invece l’elaborazione di software da poter mettere a disposizione ad aziende terze. Un sogno dei team è spesso quello di poter far pervenire i risultati degli hackathon fino alle redazioni.
Tra i componenti dei team si instaura di norma un dialogo continuo, innovativo e con ampia libertà di espressione e sperimentazione. I limiti sono però diversi: solo il 10-25% dei prototipi creati in questi contesti riesce ad entrare poi nel mercato, a causa di mancanza di fondi, tempo, ma anche per la cultura manageriale che domina al momento il settore del giornalismo tradizionale. Gli editori, poco inclini alle innovazioni del loro settore, lasciano poco margine alle alternative più creative messe a disposizione dai reporter più aperti al digitale. Per la sua ricerca, Boyles ha condotto interviste con 14 organizzatori di hackathon giornalistici avvenuti nel corso del 2016. Queste persone possedevano in media 9 anni di esperienza in redazioni o nelle industrie mediatiche, con una maggior parte che operava come reporter, nella ricerca accademica o presso agenzie no-profit legate ai media. Le tematiche delle gare incluse nel campione della ricerca erano per lo più corruzione, trasparenza dei bilanci della città, accessibilità dei dati finanziari sulle campagne politiche e sfide per implementare l’educazione. Gli eventi esaminati erano alimentati anche dai velori del movimento open data.
L’autrice della ricerca ha comunque sottolineato la difficoltà degli hackathon a interagire con il grande pubblico. I partecipanti, seppur non necessitino di una lunga esperienza, devono comunque possedere una conoscenza informatica di base per poter contendere, potenzialmente escludendo di conseguenza parte della popolazione. La percezione di questi eventi, inoltre, rimane spesso quella di un ambiente chiuso, che crea app poco interessanti o persino quella di un fenomeno dai tratti illegali. Ciò deriva anche dalla percezione comune della società nei confronti degli hacker, visti spesso in modo stereotipato come abili informatici spesso intenti a perseguire intenti criminali online, come furti di dati sensibili. Boyles ha anche studiato la figura del giornalista-hacker, una categoria innovativa nel panorama mediatico. All’interno delle redazioni, i giornalisti-hacker portano la loro formazione informatica in diversi ambiti, come quello dello storytelling – la modalità di presentare e raccontare una notizia al pubblico. La loro etica – derivante dall’ambiente hacker, che presenta elementi come trasparenza dei dati, collaborazione e condivisione – ha dei punti di contatto con gli ideali del giornalismo professionale: la scelta e la divulgazione di notizie, ad esempio, devono seguire un modello neutrale, etico e con una forte valenza investigativa. Malgrado ciò, i reporter hacker faticano ancora a rapportarsi in modo efficiente con le aziende mediatiche. Queste ultime, infatti, cercano un forte coinvolgimento con le audience, risultati di squadra, e una prospettiva di produzione di contenuto e trasmissione delle notizie che bilanci il modello tradizionale con uno più commerciale. Al contrario, i reporter hacker preferiscono invece essere autonomi, hanno una scarsa propensione alla collaborazione in gruppo e una ridotta comunicazione con le redazioni, ma soprattutto non sono troppo interessati ad un ingaggio diretto con il pubblico.
In maniera simile ai giornalisti-hacker, anche i civic hacker faticano a instaurare una relazione diretta con le audience di riferimento. Ciò che manca è la capacità di comunicare efficacemente con l’esterno, facendo appassionare al mondo del coding un pubblico più ampio. Il dibattito, che dovrebbe essere acceso e volto a ingaggiare più parti della società, ha rischiato dunque più volte di spegnersi. Lo studio richiama al fatto che non tutti i giornalisti posseggano le capacità di farsi intermediari degli open data: quelli di stampo tradizionale – che si sono formati nei quotidiani cartacei, ad esempio – non presentano le giuste conoscenze per interagire con la platea di specialisti, hacker e cittadini che si riuniscono attorno alle produzioni di news e di consumo. Un problema comune già presente di base nelle redazioni, dove vi è la credenza che le competenze acquisite sul campo siano più importanti degli approcci del giornalismo contemporaneo.
L’interesse negli open data è forse stato troppo centrato sui dati in sé, scrive Boyles, mettendo in secondo piano una possibile conversazione aperta con gli utenti, che richiederebbe sia parlare che ascoltare tutti i bisogni delle persone. Infine rimangono perplessità sul modello in sé degli hackathon: basse ricompense, lunghe sessioni di lavoro e precarietà dei progetti. Così come gli hackathon giornalistici, anche quelli “originali” hanno ingranaggi complessi: questioni civili rilevanti, curiosità delle comunità locali, buon approcci dei governi, seri approfondimenti, e la creazione di software che possano davvero avvantaggiare gli utenti. Solo in questo modo questo meccanismo potrà continuare a funzionare.
La ricerca completa, “Laboratories for news? Experimenting with journalism hackathons”. è disponibile da: https://doi.org/10.1177/1464884917737213
Tags:data journalism, giornalismo digitale, hackaton, hacker, innovazione, Open Data, trasparenza