Non conosco nessun settore che abbia mai attraversato un periodo di crisi esistenziale tanto importante come il giornalismo negli ultimi dieci anni. Ho passato più di vent’anni lavorando nelle news e nell’attualità, prima di passare, nove anni fa, alla London School of Economics (Lse), dove il mio lavoro di ricerca si è incentrato soprattutto su come i news media stiano cercando di elaborare un nuovo business model. L’etica sarà centrale per un futuro migliore di questa industria tanto quanto l’economia ed è probabile che nell’era digitale anche altre industrie dovranno imparare una lezione simile.
L’intero processo del giornalismo è stato riconfigurato: gli strumenti per la raccolta, la creazione e la diffusione delle notizie sono stati cambiati da queste trasformazioni, portando anche a una profonda alterazione del modo in cui le notizie vengono fruite e pagate. Nel mondo, ora, ci sono più smartphone che persone e sono connessi a una Internet globale che permette ai cittadini di accedere, condividere e creare notizie per conto loro. Perso il loro ruolo di gatekeeper, i giornalisti – e le aziende per cui lavorano – si scoprono ora nodi e canali all’interno di una rete di informazioni in cui grandi attori digitali come Google, Facebook o BuzzFeed sono presumibilmente più significativi della Bbc, della Cnn o del New York Times.
Molte aziende mediatiche tradizionali si stanno adattando rapidamente a questa fondamentale sfida introducendo nuove pratiche di lavoro, piattaforme e fonti di guadagno. Nel Regno Unito, ad esempio, The Guardian ha scelto il modello “aperto” e vuole generare “volume” online sviluppando il proprio brand come provider mondiale liberale di notizie, offrendo un range di prodotti che includono notizie dell’ultim’ora, indagini approfondite, workshop di cucina e un anche sito web di incontri. BuzzFeed, invece, finanzia il suo giornalismo di crescente qualità attraverso contenuti sponsorizzati e video di gattini. Altri invece, come il londinese The Times, hanno scelto il modello degli abbonamenti e l’offerta di servizi aggiuntivi alla propria comunità di lettori.
Ma dove risiede allora il valore dell’etica?
Prendiamo come riferimento l’attuale crisi dei migranti che sta interessando tutta Europa: si tratta di un evidente caso di potenziali opportunità e sfide che il giornalismo come settore, nell’era digitale, deve affrontare. La foto di un bambino morto su una spiaggia ha apparentemente funzionato da punto di svolta per la consapevolezza delle persone su queste questioni immensamente importanti, complesse e disturbanti. Attraverso i social media, quella immagine è balzata nel palmo delle mani delle persone, apparendo sugli schermi connessi, nel bel mezzo della loro vita. E c’è stata una reazione, anche se era soltanto in forma di “like”: milioni hanno partecipato a campagne con hashtag di sostegno ai profughi. Altri hanno risposto con rabbia, esplodendo con furia digitale contro la prospettiva che ciò che avevano visto potesse diventare una minaccia al loro stile di vita. Ma cosa fanno i giornalisti professionisti di fronte a questo tumulto?
Una reazione è stata quella di imporre quell’immagine e altre storie sconvolgenti ai lettori e agli spettatori. I giornali, che solo qualche settimana fa mettevano in guardia dalle disastrose conseguenze dell’immigrazione di massa, improvvisamente hanno iniziato a implorare compassione. I giornalisti, che avevano affermato come l’Occidente avrebbe dovuto astenersi dall’intervenire nei conflitti che hanno causato questo esodo verso le coste europee, hanno iniziato invece a sostenere come quella sia, invece, una nostra responsabilità. Il ciclo di notizie non è mai stato veloce quanto oggi, grazie all’accelerazione impressa dai canali news 24/7 combinata al flusso di notizie online e al disperato tentativo di stare al passo dell’imprevedibile e mutevole flusso dei social media. Tutto questo sembrerebbe creare esasperazione e confusione nel pubblico.
Personalmente ritengo che la migliore reazione aziendale per il giornalismo sia produrre del valore aggiunto per questo scenario di complessità e incertezza. Questo implica l’etica. Certamente, i giornalisti devono usare tutte le nuove tecnologie, essere su tutte le nuove piattaforme, e non solo sui loro siti web personali o sulle piattaforme come Facebook, ma anche su Snapchat e Instagram, dove le persone vanno sempre più spesso per scoprire cosa sta accadendo nel mondo. Condizione irrinunciabile per queste attività è però che i giornalisti producano un valore aggiunto etico. Come prima cosa devono essere sul campo, perché riferire dalla base è vitale. Allo stesso tempo, devono sapersi districare tra le numerose fonti online che attorniano ogni storia. Devono essere abili nel data journalism: dare informazioni reali e affidabili presentate in un modo accessibile e che possa descrivere gli eventi e i fatti in modo accurato e proporzionato.
Ma devono anche mostrare empatia. L’antica idea del giornalismo imparziale, basato sui fatti e equilibrato è ancora certamente valida, ma i giornalisti devono anche comprendere la dimensione emotiva e devono mostrare empatia per il soggetto e per le reazioni del pubblico per trasmettere l’interesse umano di ogni storia. Se lo fanno in un modo trasparente, al fine di fornire un servizio ancora più accorto, allora i lettori si fideranno. I giornalisti devono essere sufficientemente umili da ammettere i loro errori ed essere sempre pronti ad accettare di non sapere tutto. Se i giornalisti riescono a fare tesoro di questi principi etici, allora il loro lavoro sarà apprezzato dal pubblico e riusciranno a creare relazioni durature di fiducia e rilevanza con il pubblico. Questo è il modo migliore per indurre le persone a pagare per ciò che si fa.
Sempre più spesso anche altri settori stanno imparando approcci simili. Creare fiducia significa lavorare più duramente per offrire un servizio migliore al pubblico, e non solo vendergli un prodotto. Un approccio etico significa anche dover proteggere il proprio brand dai colpi che i social media moderni possono recapitare quando le proprie azioni non si allineano con i valori affermati. I rischi per la reputazione non sono più soltanto una questione di pubbliche relazioni, ma stanno al centro di una strategia aziendale.
Articolo pubblicato originariamente il 21/09/2015 su LSE Business Review, ripubblicato per gentile concessione
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