COVID-19 e giornalismo: Italia

3 Aprile 2020 • Brevi, Giornalismi, Più recenti • by

Il Coronavirus SARS-Cov-2 / Pixabay / public domain

Questo articolo è parte di una serie dell’EJO dedicata alla copertura giornalistica del Coronavirus COVID-19 nel mondo. La lista completa degli articoli è disponibile qui e in inglese.

La pandemia COVID-19 ha travolto l’Italia in modo tragico e il paese è oggi il più grande focolaio del virus in Europa. Di conseguenza, il giornalismo italiano è stato costretto ad affrontare una emergenza senza precedenti né paragoni nella storia recente e le redazioni hanno dovuto adattarsi a una realtà nuova e inesplorata. Due esempi concreti possono spiegare la magnitudo di quanto sta avvenendo sui media nazionali: l’edizione del quotidiano La Repubblica del 30 marzo – ma vale lo stesso per qualsiasi altro giorno e giornale dall’inizio della quarantena – dedicava oltre 20 pagine all’emergenza e le rimanenti sezioni tematiche, come cultura e sport, si occupavano comunque di trattare gli impatti della pandemia sui loro settori di riferimento. La notizia più tragica, però, sugli impatti del COVID-19 sul giornalismo arriva però dalla città di Bergamo, la più colpita in Italia. Qui, il giornale locale Eco di Bergamo è uscito il 13 marzo con dieci pagine dedicate ai necrologi, quando in condizioni normali ne stampa solo una al giorno.

Nel digitale, i siti di informazione sono in uno stato di costante breaking news dall’8 marzo, giorno dell’introduzione delle prime misure di quarantena. Gli aggiornamenti sulla diffusione del virus, sulla conta dei morti e gli aggiornamenti da parte delle autorità hanno occupato l’attenzione anche dell’informazione sul web, anche se i dati perdono di significanza giorno dopo giorno. Al fine di analizzare la risposta del giornalismo italiano al COVID-19, l’EJO ha interpellato alcuni giornalisti e accademici per discutere come la pandemia sia stata trattata dagli organi di informazione del paese.

Fare giornalismo in modalità emergenza
Sergio Splendore è docente di giornalismo e sociologia dei media all’Università degli Studi di Milano. A suo dire, “le notizie dalla Cina, ovattate, frammentate, lontane non sono riuscite a mettere in guardia nessuno rispetto all’impatto del virus. La copertura dei news media è stata emergenziale, cercandosi di adattare agli eventi”. Per quanto riguarda gli aspetti negativi della situazione, Splendore ha le idee chiare: “uno degli aspetti più negativi è stato il tono sensazionalistico iniziale. E lo sostengo con la consapevolezza che, non so se in maniera riflettuta o meno, ma ci avevano visto giusto. Quel modo urlato e apocalittico con cui i news media hanno affrontato inizialmente la pandemia, è stato però pigro, routinario, scandalistico. L’aspetto positivo, per quanto abbia dei risvolti conflittuali, è il tentativo di restituire centralità al sapere esperto (medici, scienziati, analisti dei dati)”. Guardando alla copertura internazionale degli eventi italiani, Splendore riscontra i medesimi aspetti critici, ma, sottolinea, “ci sono delle commendevoli eccezioni, El Pais e The New York Times, soprattutto a cavallo tra febbraio e marzo erano più capaci di spiegarmi quanto stesse accadendo in Italia di quello che facevano i media italiani stessi”.

“Preferirei non giudicare. Ho visto cose davvero molto utili e ben fatte. Altre purtroppo no. Forse quello che è mancato è come per la politica essere preparati a gestire a livello mediatico l’informazione su una epidemia che è poi diventata pandemia”, commenta invece Arianna Ciccone, co-fondatrice dell’International Journalism Festival di Perugia e di Valigia Blu, testata online dedicata al giornalismo in profondità e di comunità molto impegnata anche sul fronte del Coronavirus, “invece in gran parte abbiamo improvvisato passando da coperture allarmistiche a coperture rassicuranti nel giro di pochi giorni, per esempio. Confondendo così i cittadini e magari indebolendo i messaggi che nei momenti più importanti avrebbero dovuto passare con forza come quelli sui comportamenti da seguire”.

Per Ciccone non è possibile sottovalutare il ruolo dei social media in questo contesto mediatico, sia per i loro aspetti sia positivi che negativi: “sia per la diffusione di informazione utile che per la diffusione purtroppo di false notizie e manipolazioni. Ho visto le principali piattaforme prendere iniziative importanti, vedi Facebook e Twitter ma anche Medium, tutti impegnati per diffondere informazioni verificate e ufficiali e contrastare la disinformazione”. I social media, per Ciccone, giocano un ruolo cruciale anche in ambiti spesso sottovalutati tra le analisi degli impatti di questa pandemia: “sono importanti, direi fondamentali, come supporto emotivo e psicologico per i cittadini che stanno condividendo a livello globale un’esperienza unica e radicale: la paura del virus, l’angoscia e lo stress del lockdown”, continua Ciccone, “e ho visto il ruolo incredibile che hanno svolto per la scienza, la ricerca e gli scienziati che hanno condiviso e condividono studi, analisi, scoperte. Affascinante e anche commovente”.

Il giornalismo scientifico in prima linea
Il giornalismo scientifico è senza dubbio il settore specialistico dell’informazione più importante in questo momento e il suo contributo è ora più fondamentale che mai. Andrea Gentile è giornalista scientifico e responsabile delle operazioni digitali dell’edizione italiana di Wired, testata che ha coperto il COVID-19 anche con una serie di podcast audio. “La scienza non fornisce certezze granitiche, ma un metodo per conoscere il mondo e un’idea condivisa su come molto probabilmente funzionano le cose. L’incertezza fa parte del gioco e ne dobbiamo tenere conto quando ne parliamo: ad alcune domande neanche gli scienziati sanno dare una risposta certa, almeno per ora, ma solamente ipotesi: dobbiamo dirlo e ribadirlo”, commenta Gentile. Un esempio chiaro di questo stato di cose è dato dalle cifre e dai dati sulla diffusione del contagio: “sin dall’inizio tutti i media li hanno pubblicati con rapidità e costanza”, dichiara Gentile, “questi numeri però raccontano una storia, parziale e limitata, della situazione; alcuni sono più importanti di altri, mentre certi non hanno alcun significato pratico. La riproposizione passiva dei dati comunicati dalle autorità non è utile al lettore, che di epidemiologia potrebbe non sapere molto”.

Ovviamente, una pandemia è anche una circostanza pericolosa per la diffusione della disinformazione. Andrea Gentile, però, teme di più la sovrabbondanza di informazioni: “questo è il momento in cui lo slow journalism dovrebbe essere una risorsa: approfondimenti circostanziati e scientificamente corretti, invece di brevi notizie impacchettate in fretta, senza verifiche, oppure vere e proprie bufale. Questa attenzione in fondo dovrebbe essere una costante. Però il giornalismo può davvero poco nei confronti delle catene di messaggi audio su WhatsApp, ricevuti magari da un parente stretto di cui ci si fida. È nella natura umana crederci. L’unica (e parziale) soluzione è provare a esserci, farsi trovare nel momento in cui qualcuno cerca una conferma, nella speranza di essere considerati una fonte affidabile”.

“Le sfide per il giornalismo sono quelle di sempre: informare in modo corretto, indipendente e onesto”, afferma invece Luigi Ripamonti, direttore di Corriere Salute del Corriere della Sera e medico di formazione, sottolineando come esistano due regole principali da seguire quando si  fa comunicazione del rischio. La prima è “non negare, nascondere o sminuire mai i pericoli, perché mentire è il modo più semplice per perdere la fiducia“, quella stessa fiducia che, se dovesse venire a mancare, porterebbe “qualsiasi messaggio ad essere ignorato o respinto, con grave danno per la sicurezza pubblica”. La seconda, continua Ripamonti, è l’importanza di “ammettere limiti e incertezze del sapere disponibile, che è in continua evoluzione, ma che è anche l’unico patrimonio sul quale contare per agire in modo razionale”.

Anche per Ripamonto occorre prestare grande attenzione all disinformazione e in particolare “sui social, dove circola disinformazione e l’informazione tradizionale si sente investita del ruolo di demistificatrice delle informazioni false, ma in questo modo, pur assolvendo a un suo dovere, involontariamente ne aumenta la circolazione”. Ripamonti auspica anche che crescano le figure devote al citizen journalist, che “si incarichino di fermare le fake news che sono come i virus, più si fanno circolare più infettano, e non è un caso che per loro si sia scomodato da tempo il termine virale”.

Data journalism e attivismo civico
Uno degli strumenti che meglio si adatta alla divulgazione dei dati, in particolare in tempi di pandemia, è il data journalism. Luca Salvioli, coordinatore di Lab24 del Sole 24 Ore, un team di infografici, designer e sviluppatori, afferma che “la nostra pagina dedicata al Coronavirus ha iniziato a fare numeri incredibili. Sempre più utenti l’hanno presa come riferimento assumendo un carattere di ufficialità”. Questo ha spinto ad un aggiornamento continuo sia in termini di dati sia in termini di integrazioni di nuovi elementi. Il problema è che si parte da dati imperfetti: “il dato sui contagi in particolare è certamente solo una frazione dei contagi reali, perché fa riferimento solo a chi fa i tamponi. Per questo mettiamo in relazione i contagi con il numero di tamponi giornaliero, ad esempio. Anche questo dato è imperfetto, ma insieme alle altre visualizzazione consente di pesare i singoli dati in una visione di insieme”. Un altro punto importante su cui Salvioli si sofferma è l’importanza della collaborazione con il pubblico: “riceviamo ogni giorni decine di mail di lettori, lo stesso sui social, in molti casi partiamo dalle loro richieste o suggerimenti per aggiungere le visualizzazioni”.

Oltre all’attendibilità dei dati, che è alla base quando ci si occupa di divulgazione, è necessario prestare attenzione a rendere i dati comprensibili per il grande pubblico. Il coordinatore di Lab24 afferma infatti che “la principale confusione riguarda il modo in cui la Protezione Civile comunica i dati durante le conferenze stampa. Come principale numero loro considerano gli attualmente positivi, ovvero i malati, enfatizzandone la variazione giornaliera. Solo che a questo dato ogni giorno vengono sottratti i nuovi guariti e i nuovi deceduti. Il dato dunque non dice i nuovi contagi giornalieri, quelli si evincono dalla variazione dei casi totali”. Salvioli continua “noi abbiamo deciso di prendere la variazione dei casi totali e anche gli altri giornali progressivamente hanno fatto questa scelta”. Da qui la scelta di scrivere un articolo specifico su come leggere i dati.

Donata Columbro, invece, è una digital strategist e attivista open data del collettivo Dataninja, che si occupa di di reporting data-driven e comunicazione. Insieme ad altri attivisti open data, Columbro ha lanciato COVID19 Italia Help, una piattaforma crowdsourcing per raccogliere dati e informazioni sulla pandemia e l’organizzazione di attività solidali e di aiuto. Anche secondo Columbro, i dati sanitari ufficiali sono incompleti quando usati come unica fonte per “spiegare” la situazione: “bisogna provare a raccontare gli effetti della pandemia senza usare i dati sanitari. Cosa sta succedendo all’economia? Al settore culturale, totalmente fermo? Pensiamo ai dati degli eventi saltati. I libri non pubblicati. I musei chiusi. E che dire delle scuole. La sfida ora è allargare lo sguardo, far sentire i lettori inclusi in questo racconto che li riguarda da tanti punti di vista”.

Dal punto di vista di Columbro, l’abbondanza di grafici di queste settimane dovrebbe essere completata con altre strategie di visualizzazione dei dati, più efficienti: “trovo molto efficaci i lavori di Toby Morris per il sito neozelandese The Spinoff per far comprendere come funziona il virus: si usano fumetti animati e visualizzazioni che non contengono numeri ma rappresentazioni e simulazioni facilmente comprensibili”. Il progetto Covid19Italia.help sta dando un contributo informazionale con il coordinamento delle richieste di aiuto da far coincidere con le offerte di servizi, aiuti e assistenza, fornendo informazioni di pubblica utilità: “cerchiamo di raccogliere le informazioni che interessano i cittadini e organizzarle, anche visivamente, con delle mappe”, spiega Columbro, “in questo modo una persona può facilmente trovare il servizio che le serve, grazie alla geolocalizzazione. Ci sono le consegne a domicilio, ma anche numeri del supporto psicologico divisi per regione, e sostegno ai lavoratori. È un servizio pubblico, come quello che dovrebbero offrire i giornali”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle degli autori e degli intervistati e non rispecchiano necessariamente quelle di tutto l’EJO

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