Da settembre 2014, con l’approvazione della legge in Paraguay, sono ben cento i paesi ad aver adottato un Foia, una legge che regolamenti l’accesso alle informazioni e ai dati delle amministrazioni pubbliche. Un Freedom of Information Act è infatti un tassello fondamentale nel misurare lo stato di salute di una democrazia, a cominciare dalla sua apertura nei confronti dei cittadini, fino ad arrivare alla sua predisposizione a favorire la trasparenza dei suoi meccanismi e un giornalismo capace di tenere sotto controllo proprio quei meccanismi.
Mentre la Svizzera ha adottato il suo Foia nel 2004, nella lista dei cento paesi manca ancora l’Italia, dove l’accesso alle informazioni pubbliche è regolamentato da leggi vecchie e inadeguate che non facilitano l’accesso all’informazione pubblica. In attesa che la politica riconosca il problema e si decida a intervenire, un gruppo di Ong e giornalisti che si occupano di trasparenza e Open Data ha deciso di unirsi per redigere una proposta di legge.
L’iniziativa Foia4Italy è stata lanciata lo scorso anno e il testo proposto per un Foia italiano è disponibile online. Al festival del giornalismo Glocalnews si è discusso del progetto e delle ragioni per le quali un Foia sia di stringente necessità in Italia. A margine del panel a #glocal13, cui anche l’Ejo ha partecipato, abbiamo discusso della questione con Guido Romeo, datajournalist di Wired e Presidente di Diritto di Sapere.
Il caso Snowden e il Datagate hanno dimostrato una volta di più quanto esista, anche nelle democrazie più solide, un forte culto della segretezza, paradossale nell’era digitale, a tal punto che la “overclassification” è un problema urgente negli Usa. Quali sono a tuo dire le ragioni?
“Non credo che nessuno stato moderno possa fare a meno della segretezza e credo che per alcune informazioni sia effettivamente indispensabile. Non è paradossale nell’era digitale e, anzi, di fronte a strumenti che creano una così grande permeabilità, la segretezza diventa ancor più importante. Una delle cose che colpisce della vicenda Snowden è però il pessimo uso che le forza di sicurezza Usa ne ha fatto. Il problema della ‘overclassification’ è emerso anche con Manning ed è stata la chiave che ha permesso a un analista di livello medio di accedere a una quantità impressionante di file. In sostanza, più tu classifichi, più alto è il numero di accessi di alto livello che devi concedere e quindi più alto è il rischio di avere un whistleblower. L’Osce ha più volte avvertito dei rischi di questa cattiva gestione della segretezza, ma credo che sia molto difficile riformarla perché le sue radici sono nella cultura militare e politica degli Stati. Una metodologia di gestione efficace deve ancora emergere. Anche in Italia ci sono non pochi problemi. Gli archivi sul caso Alpi ne sono un esempio: sono stati desecretati documenti in blocco, con informazioni sensibili anche su persone ancora in vita. E questo causa non pochi problemi con la privacy”.
Qual è la situazione in Italia, l’accesso all’informazione è adeguatamente tutelato?
“Come co-fondatore di Diritto di Sapere e sostenitore di Foia4Italy non posso che rispondere no. La mia non è una posizione ideologica, ma basata su esperienze personali dirette, dato che come giornalista a Wired faccio regolarmente richieste usando la legge 241/90 e il più recente decreto 33/13 e ne conosco i limiti. Inoltre, anche evidenze empiriche come quelle che abbiamo descritto nel report ‘Silenzio di Stato’, basato su 300 richieste di accesso alle amministrazioni pubbliche italiane, confermano questa cosa. Ma il problema non sono solo le leggi italiane come la 241/90 che vincolano anacronisticamente il diritto di accesso a un ‘interesse qualificato’ del richiedente ponendoci in grande ritardo rispetto ai Freedom of Information Act ormai diffusi in più di 100 paesi nel mondo. Il limite più grande è forse quello interno alle amministrazioni pubbliche che spesso hanno sistemi informativi farraginosi e che catalogano male dati e documenti. Molto spesso il dato o l’informazione che si cerca è effettivamente molto difficile da estrarre o di qualità talmente scadente che le stesse amministrazioni sono in difficoltà a rilasciarlo”.
Perché all’Italia serve un Foia? Che vantaggi porterebbe?
“La prima risposta che mi viene è molto egoistica: serve a me come giornalista per fare meglio il mio lavoro e mi serve come cittadino per conoscere meglio informazioni raccolte in mio nome e che mi riguardano: dalla mortalità dell’ospedale vicino a casa, al rischio di crollo delle scuole che i miei figli e i miei conoscenti frequentano per tantissime ore la settimana, a come vengono spese le risorse raccolte attraverso le mie tasse, a quali sono i rapporti economici tra donatori e partiti politici. Questi sono solo alcuni esempi ed estremamente personali, ma credo estendibili a tutti.
Su un livello più generale posso risponderti che il Foia è ormai unanimemente citato come un prerequisito per la trasparenza e la lotta alla corruzione come ha ricordato anche Transparency Italia nel suo ultimo report. E qui entriamo in una sfera che non è semplicemente più quella dei diritti ma dell’efficienza e della competitività economica. In un paese dove la corruzione costa 60 miliardi l’anno e l’efficienza nella gestione dei fondi europei è una delle più basse dell’Unione, uno strumento come il Foia è chiaramente necessario. Non credo sarà la soluzione di tutti i mali, ma se solo ci aiutasse ad abbattere di qualche punto percentuale il costo della corruzione, avremmo delle efficienze mostruose e riacquisteremmo attrattiva anche per gli investitori esteri”.
Come nasce Foia4Italy? Qual è il primo obiettivo che vi date?
“Fare un Foia italiano non è un’idea nuova. Ci ha provato un paio di anni fa la coalizione di Foia.it, che abbiamo sostenuto come Diritto di Sapere, ma con scarsa fortuna. Foia4Italy ha raccolto l’adesione di Foia.it prendendo spunto dai numerosi richiami di Matteo Renzi a questo tipo di legislazione e alla trasparenza già a fine 2013 quando faceva campagna per le primarie del Pd e poi nel suo discorso di insediamento come Premier. Formalmente è un’iniziativa nata all’inizio dell’estate scorsa e che unisce circa una trentina di associazioni di stampo anche molto diverso, da chi promuove gli open data a chi si interessa di problemi sociali e marginalità. L’idea è che il Foia è uno strumento trasversale, utile a cittadini, professionisti e imprese. L’obbiettivo è arrivare a un testo condiviso e validato a livello internazionale da sottoporre per farlo diventare una legge con questo Governo che ha un primo ministro, Matteo Renzi, che lo ha più volte citato. Il testo che abbiamo elaborato è molto ambizioso. Lo stiamo limando e sottoponendo a consultazione pubblica. Spero che presto riusciremo a sottoporglielo”.
Diritto di Sapere ha pubblicato di recente un report comparato sui Foia in otto diversi paesi, per promuoverne l’adozione anche in Italia. Qual è l’esempio migliore a tuo dire?
“L’esempio migliore rimane sempre quello svedese, non tanto per la legge, ma per la cultura amministrativa di servizio al cittadino e di trasparenza che permea il sistema. Ci sono però esperienze come quella croata e slovena che mostrano come democrazie più giovani della nostra si siano mosse con molta determinazione sul fronte dell’accesso e ci abbiano nettamente superato”.
Tra i maggiori beneficiari possibili di un Foia vi è certamente il giornalismo. Anche in tempi recenti non mancano esempi efficaci di come questo strumento possa essere un’importante risorsa in questo senso. Pensi che il giornalismo italiano abbia perso importanti occasioni per via dell’assenza di una legge di questo tipo?
“Il giornalismo italiano ancora stenta a capire l’importanza di questo strumento. Se ne scrive spesso, ma anche nelle redazioni si contano sulla punta delle dita le persone in grado di scrivere una richiesta di accesso agli atti. Ho riscontrato che c’è anche una certa diffidenza per un sistema che renderebbe accessibile a più persone i documenti delle pubbliche amministrazioni, interrompendo così rapporti di relazione coltivati nel tempo. Credo però che sarebbe un enorme beneficio per la generazione di colleghi più giovani e magari in grado di maneggiare con più facilità strumenti di data journalism e di integrare i dati ottenuti dalle PA in applicazioni web interattive”.
Photo credits: Alessio Jacona / International Journalism Festival / Flickr CC
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