Fare i freelance nei media in Italia

22 Giugno 2020 • Cultura Professionale, Più recenti • by

I professionisti della comunicazione e dell’informazione, in Italia, sono decine di migliaia. Su oltre 40mila iscritti alla previdenza giornalistica – la cassa INPGI – nel 2017-2018, solo poco più di 15mila profili erano inquadrati come lavoratori con contratto a tempo indeterminato e quindi assunti all’interno di realtà editoriali, giornali, testate, radio, tv (qui i dati più aggiornati, fonte INPGI).

Nella comunicazione si stima siano oltre 10mila gli addetti stampa e i comunicatori (dati Agenda del Giornalista 2019). Ma esistono anche altre figure professionali nuove che non rientrano nei canoni dei conteggi: social media manager, esperti di marketing e consulenti editoriali, addetti stampa con competenze digitali avanzate.

Essere freelance nel mondo dei media è una condizione sempre più diffusa, mentre tra chi gode di un contratto di lavoro dipendente il precariato non è un’eccezione, anzi, spesso è la regola.

“Uniti contiamo, contiamoci insieme”: nel titolo sta la premessa. Solo insieme si può davvero contare qualcosa, ma la prima cosa da fare è contarsi. È da questo presupposto che la testata giornalistica indipendente Slow News e Acta, associazione che rappresenta i freelance italiani, hanno lanciato un sondaggio che mira a mappare le reali condizioni di lavoro di alcune categorie di professionisti spesso prive di strumenti di tutela e di concrete strategie di sostenibilità: i freelance dell’informazione e della comunicazione.

Per preparare qualcosa di complesso con solide basi quantitative, sarebbero serviti ben altri strumenti. Così è stato scelto di procedere con un sondaggio, senza finalità statistiche, che tentasse di costruire una fotografia più concreta della situazione e illustrare i contorni di un mondo poco conosciuto. Il sondaggio è stato composto da due parti, perché due erano le macro-categorie di interesse: una relativa a giornalisti o comunque collaboratori di realtà giornalistiche, tanto redattori quanto fotografi, illustratori o consulenti; l’altra riconducibile a chi lavora principalmente all’interno di aziende e uffici stampa, addetti stampa, social media manager e consulenti in comunicazione e marketing.

Sono state raccolte 609 risposte, 408 per il sondaggio giornalisti e 201 per il sondaggio comunicatori. Su 609 rispondenti, il 44% ha 30 anni, mentre solo il 14% ha dai 50 anni in su e la maggioranza è di sesso femminile. I livelli di istruzione sono elevati: i due terzi dei rispondenti hanno almeno una laurea magistrale.

E qui i risultati si dividono in due, in base alla categoria di appartenenza scelta. Per quanto riguarda i giornalisti, oltre il 40% del campione ha una partita Iva e oltre il 35% viene pagato attraverso collaborazioni occasionali e diritto d’autore. Il 29% dichiara di lavorare per una sola testata o committente e il 28% con due. Il 52,7% svolge esclusivamente la professione di giornalista; mentre il 41,2 svolge anche altre attività per necessità economica, diversificazione del rischio e ricerca di varietà. Il 66% viene pagato solo se il servizio/pezzo o prodotto editoriale – es. vignetta o foto – è effettivamente pubblicato. Il 42% riceve meno di 5mila euro lordi annui; mentre il 68,1% porta a casa meno di 10 mila euro lordi all’anno.

Per quanto riguarda i comunicatori, invece, solo l’8% di coloro che hanno risposto al questionario è specializzato in una sola attività o strumento di comunicazione. Il 25% svolge oltre 5 mansioni contemporaneamente, mentre mediamente chi lavora nella comunicazione svolge almeno 4 mansioni diverse. L’attività più diffusa, svolta dall’80% degli intervistati, è quella di social media e content management. Il 55% riceve un compenso fisso mensile, il 35% viene pagato in base alle ore di lavoro svolte o all’impegno effettivamente impiegato e il restante 10% al raggiungimento degli obiettivi. Il 32,8% guadagna meno di 10 mila euro lordi all’anno, mentre circa il 25% riesce ad assestarsi tra i 10 mila e i 20 mila euro.

L’aspetto che accomuna le due categorie – e si tratta di una questione preoccupante – è il tema della previdenza e del futuro pensionistico. Si registra un’elevata percentuale di persone senza cassa di riferimento: il 14% dei comunicatori e il 17,2% dei giornalisti (tra questi ultimi il 67% di chi non è iscritto all’albo giornalisti e il 12,9% dei pubblicisti) non hanno una cassa in cui versare contributi pensionistici.

Dai risultati emergono anche altri temi rilevanti. Tra i giornalisti, meno di 1/4 lavora in redazione o in un coworking. Solo il 5% non lavora mai da casa. I 3/4 dei rispondenti, invece, non lavora mai in redazione. Tra i comunicatori è più frequente il lavoro presso i clienti (il 56% vi lavora almeno un giorno la settimana) e anche il lavoro dai coworking (utilizzati dal 21%).

Nell’attività giornalistica “classica” ormai i collaboratori non possono più svolgere la professione in modo esclusivo, ma svolgono attività di comunicazione collaterale – ad esempio, come social media manager – per sostenersi. Nonostante la richiesta di professionisti della comunicazione e dell’informazione da parte del mercato e l’aumento del carico di lavoro proprio nel periodo dell’emergenza Covid-19, i rispondenti segnalano un calo ulteriore dei compensi – già bassi – e un allungamento dei tempi di pagamento.

Alla luce di questi risultati sappiamo che bisogna fare qualcosa, insieme. All’interno di Acta si è costituito un gruppo di professionisti del giornalismo e dell’informazione, il quale si è dato il nome di ActaMedia, che è già al lavoro allo scopo di elaborare delle proposte di tutele universali, un cantiere aperto alle idee e ai contributi di tutti.

Questa indagine è stata redatta da Acta e Slow News, con sul supporto di IRPI e Fior di Risorse-Senza Filtro. I risultati complessi sono disponibili qui.

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