Cosa suscita davvero l’empatia dei lettori?

7 Ottobre 2015 • Giornalismi, In evidenza, Ricerca sui media • by

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C’è una frase che spiega alla perfezione il fenomeno della compassion fatigue, la fatica della compassione: “se guardo alla massa, non agirò mai. Se guardo a uno solo, lo farò”. Quello che però Madre Teresa sapeva in base alla sua esperienza personale, è stato documentato anche dalla ricerca comportamentale, che ha dimostrato come le persone riescano a relazionarsi con il dolore di una sola persona, ma al contempo percepiscono quello di migliaia di persone come una mera statistica. La recente reazione pubblica suscitata dalle foto del corpo esanime di un bambino morto su una spiaggia turca è un chiaro esempio di tutto ciò.

“Più sono a morire, meno ci importa”, conclude cupamente Paul Slovic, professore di psicologia e ricercatore di spicco in questo campo, in un paper recente. Influenzato da questa ricerca, l’editorialista del New York Times Nicholas Kristof ha sostenuto di fare grandi grandi sforzi pur di trovare un individuo con una storia da raccontare in grado di esemplificare il quadro complessivo di una particolare questione.

Piuttosto che soffermarsi sul disagio o sui numeri, Kristof preferisce cercare di smuovere i suoi lettori riportando l’esempio di persone che sono riuscite a superare situazioni disperate. “Per me, la lezione di questa ricerca è duplice”ha spiegato Kristof a Co-Exist: “per prima cosa, racconta la storia di una persona in grado di catturare l’attenzione della gente. Secondo, dimostra che non è senza speranza, ma che sono possibili diversi miglioramenti”.

Ma questo approccio è in grado di fare la differenza, nella cronaca? In uno studio recentemente pubblicato su Journalism & Mass Communication Quarterly, mi sono concentrato sull’analisi dei contenuti e nel monitoraggio dei media per stabilire come Kristof avesse applicato questi principi psicologici e, ancora più importante, se fosse riuscito a produrre una risposta da parte del pubblico. I risultati del mio studio sottolineano come non esista un “proiettile magico” con cui i messaggi mediatici riescono a colpire i destinatari e generare una risposta uniforme e potente presso il pubblico.

La prima fase di questa ricerca ha esaminato quanto effettivamente Kristof pratichi i suoi stessi insegnamenti e i principi di psicologia sociale da lui pubblicamente messi in evidenza. Esaminando gli articoli pubblicati nel corso di un anno, ho scoperto che Kristof, oggettivamente, tratta abitualmente di questioni sociali molto pesanti o distanti dal suo contesto di appartenenza presentandole con un volto umano, ovvero con una preponderanza di storie incentrate su uno o due individui. I suoi articoli includono spesso descrizioni di trionfi sulle avversità e forniscono informazioni di forte impatto emotivo, chiamando i lettori all’azione. Restio ad abbandonare completamente le statistiche, Kristof ha comunque iniettato piccole dosi di informazioni quantitative in quasi tutti i suoi pezzi.

Se Kristof però ha chiaramente impiegato metodi finalizzati al superamento dell’indifferenza, gli effetti di questi sforzi non sono altrettanto evidenti. Lo studio, nel corso della sua seconda fase, ha invece utilizzato una vasta gamma di metriche online per valutare la risposta dei lettori sul web, concentrandosi sui “like” di Facebook, sulle reference su Google, sulla classifica del New York Times delle storie più lette e l’algoritmo di Technocrati, in grado di stimare il peso di una storia nella blogosfera.

Nessuna di queste misurazioni ha dimostrato una relazione positiva e significativa con la “personalizzazione” delle storie, il superamento delle avversità o la condivisione dell’informazione. Contrariamente a quanto scoperto dalla ricerca sperimentale, che indicava come le statistiche diminuiscano l’empatia dei lettori, il mio studio ha riscontrato al contrario una relazione positiva tra l’attenzione del lettore e l’informazione quantitativa, sebbene i risultati non si siano dimostrati, in generale, in modo statisticamente conclusivo.

Tuttavia, lo studio ha anche riscontrato come la risposta del lettore dipenda molto dall’argomento trattato in un articolo e dalla sua prossimità geografica. Come prevedibile, il legame tra risposta del lettore e temi di alto interesse per il pubblico americano (ad esempio l’aborto, il conflitto Israeliano, le elezioni presidenziali, nda) era positivo, forte e statisticamente importante. In ogni rilevazione effettuata, storie che riportavano di un evento negli Usa o si concentravano sugli Stati Uniti o il Canada generavano una reazione più evidente nei lettori rispetto a pezzi incentrati su paesi stranieri.

Non dovrebbe quindi sorprendere il fatto che, ad esempio, l’articolo di Nicholas Kristof sulla campagna di Lady Gaga contro il bullismo possa produrre più reazioni di uno dedicato invece a una giovane donna fuggita da un bordello in Cambogia. Questi risultati spiegano perché le notizie riportate dai media gravitino molto attorno alle star o a eventi straordinari mentre questioni scomode o distanti, come il traffico di esseri umani, ottengono invece relativamente poca attenzione.

D’altronde, sarebbe forse troppo facile sperare nell’esistenza di una formula narrativa in cui il semplice focus sull’individuo possa far scattare una risposta emotiva diretta nei lettori, come invece è scritto nelle condizioni sperimentali poste dalla ricerca psicologica. Ma sarebbe un errore altrettanto grande anche concludere che l’approccio di Kristof sia inefficace. A dispetto della passione di Kristof per la cronaca di argomenti pesanti o remoti, i suoi articoli sono costantemente entrati nelle liste dei pezzi di maggior successo del New York Times e la sua pagina su Facebook ha attirato più di mezzo milione di seguaci.

Diverse organizzazioni di beneficenza riportano anche come gli articoli di Kristof possano generare oltre 100mila dollari di contributi quando il giornalista si occupa di una particolare questione. Chiaramente, Kristof è riuscito a costruire un suo pubblico, vasto e fedele, che lo segue nei suoi reportage. Addirittura, è possibile che gli stessi lettori più fedeli possano silenziare l’enfasi narrativa del giornalista nei risultati. Come lettori particolarmente coinvolti, infatti, potrebbero infatti già essere familiari con le questioni trattate abitualmente da Kristof.

In questo caso, questo pubblico avrà probabilmente una reazione più forte nei confronti di contenuti hard news o più dettagliati, rispetto al ritratto di una singola persona. A supporto di questa ipotesi vi è anche il fatto che la reazione di un lettore è massima quando gli articoli forniscono informazioni che evidenziano in maniera specifica cosa sarebbe stato necessario fare in una data situazione.

I risultati potrebbero però anche riflettere i limiti delle metriche digitali impiegate nello studio. La personificazione rimane uno strumento giornalistico molto potente, ma l’attenzione dell’audience è un fenomeno complesso non facilmente distinguibile attraverso un algoritmo o il conteggio dei click. Una ricerca ulteriore, quindi, è necessaria per comprendere che tipo di reportage susciti davvero una reazione pubblica importante quando i diritti umani vengono violati.

La speranza è che questo filone di ricerca incoraggi altri a considerare come la psicologia sociale possa guidare le scelte di cronaca su genocidi e altre tragedie di massa. Le risposte fornite dagli studiosi di comunicazione potrebbero dar vita a un giornalismo più efficiente e incentivare un senso civico e più sensibilità verso la sofferenza umana.

Questo articolo è una versione breve e adattata tratta dallo studio “Compassion Fatigue and the Elusive Quest for Journalistic Impact: A Content and Reader-Metric Analysis Assessing Reader Response”, pubblicato in Journalism & Mass Communication Quarterly, Vol. 92, No. 3 (Autunno 2015), 700-722.

Articolo tradotto dall’originale inglese da Alessandro Oliva

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